Di ragioni ce ne sarebbero diverse, prima fra tutte quella di uniformare le leggi elettorali in un Paese in cui si vota, a seconda del tipo di elezioni (comunali, regionali, politiche ed europee), con quattro sistemi diversi. E poi non è neppure una brutta idea cogliere l'occasione di farlo ora che il governo punta a cambiare l'assetto istituzionale con il premierato e non si sa ancora nulla della legge elettorale che l' accompagnerà: si potrebbero fare le due cose insieme anche se c'è l'eventualità - va detto - che l'elezione diretta del premier si infranga sul referendum e a quel punto c'è il rischio che il Parlamento sia costretto ad approvare due leggi elettorali nella stessa legislatura.
Insomma, ci sono tanti «pro» e «contro» sull'ipotesi vagheggiata ieri dal presidente del Senato di abolire il ballottaggio alle elezioni comunali, anche per evitare che il secondo turno venga deciso da uno sparuto numero di elettori. Semmai quello che stona è stata la scelta di porre la questione all'indomani di un voto che nelle grandi città non ha premiato il centro-destra. Certo già da mesi è stato depositato da Fratelli d'Italia e dalla Lega un disegno di legge in tal senso ma mettere la questione all'ordine del giorno proprio ora stride con un minimo di galateo politico e alimenta un'illusione: che un problema politico (i non felici risultati nei comuni maggiori in cui si è votato domenica) possa essere risolto con le tecnicalità elettorali o le alchimie dei sistemi di voto. «Questa storia di dire il giorno dopo che abbiamo perso che vogliamo abolire i ballottaggi - confida il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè - non mi sembra una grande trovata. Come minimo ci tira addosso l'immagine dei puzzoni. La verità è che o da qui ai prossimi mesi ci adattiamo alle logiche del bipolarismo, o siamo morti. Quelli ci mettono in mezzo».
Forse il problema è proprio questo: oltre agli «olà» per il passaggio dal tripolarismo al bipolarismo, bisognerebbe essere consapevoli che è necessario adeguarsi al nuovo sistema di gioco perché un conto è vedersela con due avversari, che si dividono le forze, un altro con uno solo che raduna in un solo schieramento tutte le forze che ti sono contro.
A sinistra già lo stanno facendo. Spiega Elly Schlein nel Transatlantico di Montecitorio: «Qui nessuno può permettersi più di andare da solo. È la logica del bipolarismo. Ecco perché per noi è indispensabile riunire tutti. Si è visto in queste elezioni comunali in cui abbiamo ottenuto ottimi risultati». E infatti il Pd sta guardando a tutti. Sta tentando di proporsi come il collante del «campo largo». Guarda a sinistra, guarda ai grillini sponsorizzando Giuseppe Conte in salsa unionista, guarda al «centro».
Anzi addirittura si sta ponendo il problema di favorire una riaggregazione dei centristi «riformisti» che potrebbero pendere a sinistra: dai radicali, ai renziani, a Calenda. Addirittura c'è chi pensa per superare i dissapori e l'incompatibilità tra Calenda e Renzi di mettere in pista come riaggregatore di una nuova Margherita Paolo Gentiloni (progetto che trova interlocutori attenti in personaggi come Richetti). «Se abbiamo bisogno di una costola di centro? Alla fine - è la battuta del piddino Boccia - una protesi si inventa». Non è detto che tutto ciò porti a qualcosa ma lo sforzo c'è. Anche perché da quelle parti sanno - e l'esperienza del passato e le elezioni di domenica in diverse città lo hanno confermato - che nel bipolarismo italiano la vittoria si può giocare anche su poche migliaia di voti.
Appunto, per usare un vecchio adagio di Giuseppe Tatarella, è il bipolarismo bellezza. Non per nulla nell'inner-circle meloniano c'è chi pensa che non sia stata una grande idea legittimare la Schlein e il dualismo con lei. «Siamo riusciti nell'impresa - osserva un influente ministro di Fratelli d'Italia - ma a cose fatte non c'è convenuto. Siamo stati noi a mettere in piedi il campo largo». Un pensiero che a quanto pare appartiene alla stessa premier.
Ecco perché al di là delle modifiche alla leggi elettorali, all'abolizione dei ballottaggi, per il centro-destra il problema è mettere in piedi da qui ai prossimi anni uno schieramento abbastanza ampio per essere vincente. Seduto su un divano di Montecitorio il forzista Alessandro Sorte lusinga l'ex Enrico Costa passato con Calenda. «La nostra proposta politica - gli spiega - è quella dell'Arca di Noè. Tutti a bordo.
Anche perché se non lo facciamo oggi per scelta, con i governi che con l'andare del tempo perdono appeal, saremo costretti a farlo per necessità». «Noi - gli fa eco Gianfranco Rotondi - dobbiamo cambiare modulo, ora contro di noi non abbiamo due poli ma uno solo. Per cui contro il campo largo si vince con un campo larghissimo».
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