Soci o rivali? A giudicare dalla lotta tra Roma e Ryad per aggiudicarsi l'Expo 2030 verrebbe da puntare sulla seconda. Ma con buona pace dell'ambasciatore Giampiero Massolo, a cui spetta l'impossibile missione di regalarci l'esposizione del 2030, le nostre speranze sono ormai al lumicino. Le colpe non sono certo sue. Come per Mondiali di calcio e Olimpiadi la probabilità di conquistare un'Expo è sempre proporzionale alla possibilità e alla volontà di ungere le maniglie giuste. E su questo la competizione con i rivali arabi è aldilà delle nostre capacità. Anche perché nella prospettiva, e quindi nella determinazione dei sauditi, l'Expo 2030 è una conditio sine qua non.
La Ryad vestita a nuovo diventerà, infatti, il salotto buono di «Vision 2030» la scommessa da 12mila miliardi di dollari su cui Mbs, il truce principe ereditario Mohammad bin Salman, punta per cambiare il volto dell'Arabia Saudita e liberarla dalla dipendenza dal petrolio. Mettere un piede in quell'opulenta bonanza potrebbe rivelarsi assai più redditizio di una semplice Expo. In questa prospettiva si muove il nostro governo che proprio ieri a Milano ha firmato per mano di Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, un memorandum d'intesa siglato per parte saudita dall'omologo Khalid Al-Falih. Quella firma punta a renderci assai più soci dell'Arabia Saudita che non rivali. Anche perché grazie a quella firma il Fondo sovrano dell'Arabia Saudita potrebbe diventare partner strategico del Fondo italiano per il Made in Italy. La mossa, vista l'abitudine di Mohammed bin Salman di fare a fette gli oppositori (la sorte del giornalista Jamal Khashoggi è lì a ricordarlo) non è certo facilmente digeribile sul piano dell'etica politica. Anche perché se - come afferma il ministro Urso - «il nostro modello sociale e produttivo è quello ideale per l'Arabia Saudita», lo stesso non può dirsi per la mentalità di imprenditori e imprenditrici italiani che potrebbero aver difficoltà a muoversi nel tetro oscurantismo del regno saudita. Un regno dove si decapitano gli oppositori in piazza, si punisce con la galera l'esibizione di un crocefisso e s'impongono limiti intollerabili alle libertà delle donne. Sul piano degli affari e della ragion di stato l'Arabia Saudita resta però un orizzonte irrinunciabile.
La voglia di affrancarsi dalle non infinite riserve di petrolio - da cui ancora dipende l'80% delle esportazioni e il 40% del Pil di Riad - spingerà il regno saudita ad investire - ricorda il ministro Al-Falih - «oltre mille miliardi di euro a livello globale». Mille miliardi che alimenteranno non solo turismo, sport e industria, ma anche il settore manifatturiero indispensabile a garantirne le infrastrutture. Un'opportunità irrinunciabile per le nostre imprese e di ben più ampio respiro, nel lungo periodo, di una semplice Expo. Anche perché lo sviluppo saudita sarà in prospettiva complementare a quello dei Brics e di altri mercati in rapida espansione. «Vogliamo che l'Arabia sia vista come una piattaforma da cui accedere anche all'Africa e oltre», prometteva ieri Al Falih sottolineando che l'Italia pur essendo tra «le prime 10 economie a livello globale» è solo tra i primi 20 investitori nel suo paese. Una prospettiva lusinghiera per un'economia italiana che deve ancora compensare i fatturati persi, nell'ultimo decennio, sui fronti di Russia, Libia, Siria e altri mercati critici del Medioriente.
Del resto i venti milioni annui incassati da Roberto Mancini per allenare la nazionale saudita, a fronte dei tre offertigli in Italia, evidenziano i costi e gli investimenti che Mbs è pronto ad affrontare per trasformare in un protagonista della scena internazionale un regno considerato il buco nero dell'oscurantismo islamista.
Per riuscirci - dopo aver fatto a pezzi gli oppositori legati alla Fratellanza Musulmana e aver represso con decapitazioni e pugno di ferro la minoranza sciita più vicina all'Iran - Mbs ha anche ridimensionato l'influenza di quei leader del pensiero wahabita che rappresentavano un ostacolo insuperabile per l'emancipazione sociale e i rapporti internazionali. I risultati ancora faticano a vedersi, ma di certo lo sviluppo e l'apertura ai mercati internazionali possono aiutare. E l'Italia ha solo da guadagnarci.
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