Obama fa la guerra ma si rifiuta di dirlo

La nuova strategia del presidente americano per combattere l'Isis

Obama fa la guerra ma si rifiuta di dirlo

Aerei Usa si coordinano con «il cattivissimo» di ieri (Bashar al-Assad), aerei egiziani ben sovvenzionati da Washington bombardano Tripoli senza informare la Casa Bianca: pure gli ultimi avvenimenti trasmettono quell'idea di sbandamento della politica estera obamiana rilevato anche dai media più snob e liberal come il New York Times .

Al centro del disordine il fare «la guerra» senza dire che è «guerra». Dick Cheney, vice di Bush jr, lo spiegò dopo l'11 settembre: fino a oggi – disse– s'era di fronte ad atti criminali, ora siamo in guerra. Cioè non bastano più i mezzi di diritto e polizia internazionale, servono interventi squisitamente militari. Dalle «guerre israeliane» e dal fronte petrolifero guidato dai sauditi fino alla rivoluzione islamista iraniana, l'equilibrio nel mondo musulmano (diviso tra filo sovietici e filoamericani) definito dalla guerra fredda si era man mano rotto. Si arrivò agli anni '90 senza crearne uno nuovo. Così Saddam si credette autorizzato da Washington a invadere il Kuwait, i sauditi entrarono nel panico, i cinesi aiutarono un Pakistan alleato degli americani a farsi la bomba atomica, guerriglieri da tutto l'Islam, sconfitta Mosca in Afghanistan, pensarono di sconvolgere il mondo e ricostruire un «califfato» per riunificare i fedeli in Maometto. E, quando larghi settori di popolazioni non si riconoscono più in un ordine mondiale, l'esito è la guerra.

In Occidente molti hanno ritenuto minori tali fatti, risolvibili con il soft power (al tradizionale predominio della Coca Cola si è affiancato Facebook), destinati a svuotarsi da soli (così Obama al Cairo nel 2009). Si può in questo senso ricordare l'inglese Neville Chamberlain che nel ‘38 a Monaco salutò un patto con Adolf Hitler considerandolo base per «la pace nella nostra epoca»? La tentazione è forte.

Oggi con stati come Sudan e Somalia in mani islamistiche, la Libia vacillante, uno stato islamista insidiato tra Siria e l'Irak, fanatici scorrazzanti tra Kenya e Nigeria, talebani in Afghanistan in ottima salute, è difficile dissentire da Cheney quando dice: «Molta della gente che era dietro all'11 settembre è ancora lì fuori». E vanno in questo senso ben pesate le parole di Papa Francesco I –che pur continua a testimoniare cristianamente per la pace- quando parla di una Terza guerra mondiale «a pezzi».

Nessuno nega errori nell'amministrazione Bush (l'idea di una libertà quasi da sola seduttrice dell'Irak, la non destabilizzazione di un Iran motore dell'islamismo fanatizzante, la scarsa politica di alleanze, l'intrecciarsi di sforzo bellico e crisi globale finanziaria) però allora ci fu consapevolezza dello «stato di guerra» in atto, e si potè così correggersi passando da Donald Rumsfeld a Robert Gates, e sviluppando l'antiguerriglia del generale David Petraeus con rilevanti risultati in Afghanistan e Irak. Lo sbando obamiano nasce invece proprio dal rimuovere l'effettuale «stato di guerra».

Così nelle memorie di Gates («Duty»), disperato perché la «nuova» Casa Bianca, di cui è pure ministro, non capisce le esigenze militari e liquida quella strategia petraeusiana che oggi avrebbe evitato i vari «stati islamici».

Controprova di questa verità è un libro («Insurgents») di un giornalista obamiano e pro-softpower, Fred Kaplan, che pur riconoscendo meriti a Petraeus, lo critica perché imita i metodi colonialisti degli inglesi specie in Malesia. La colpa del generale sarebbe «fare la guerra», non lasciando invece alla Coca Cola e a Facebook il compito di pacificare il mondo.

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