Un mostro di acciaio brunito lungo sessanta metri e in grado di viaggiare cinquecento metri sotto la superficie del mare fa emersione ieri nel tempestoso processo in corso a Palermo contro Matteo Salvini. Si scopre che nell'estate del 2019, mentre la nave Open Arms col suo carico di migranti cercava di raggiungere le coste siciliane, il sommergibile «Pietro Venuti» della marina militare, un bestione hi-tech varato appena due anni prima, si muoveva per il Mar Tirreno filmando e fotografando le attività dell'imbarcazione.
Di un sommergibile che si aggirava in zona facendo foto e video aveva parlato recentemente Fabrizio Mancini, capo del dipartimento anticlandestini della polizia, nell'aula bunker palermitana dove si tiene il processo al vicepremier e ministro delle Infrastrutture. Ieri si scopre che non solo il sommergibile esisteva, ma che la relazione del suo vicecomandante Andrea Pellegrino è stata inviata a nove procure della Repubblica, senza arrivare nel fascicolo del processo a Salvini. Che ieri insorge: «Sarebbe gravissimo se qualcuno avesse nascosto, omesso o dimenticato documenti rilevanti da parte di organi dello Stato. Se ci sono pezzi di Stato che dimenticano o nascondono interventi di altri pezzi di Stato, per danneggiare oggi Salvini domani chissà, vuol dire che c'è qualcosa che non funziona».
Il sospetto di Salvini è che il sottomarino abbia documentato attività della nave spagnola che potevano confermare i suoi contatti con il mondo degli scafisti, e che di questi riscontri ci sia traccia nella «informativa fantasma», come la definisce il suo legale Giulia Bongiorno. Nella informativa si dice che due persone, una a bordo della nave e una nelle vicinanze, dialogano in spagnolo, poi la Open Arms cambia rotta. Gli interlocutori erano trafficanti di esseri umani? Il «Venuti» pare che si trovasse in zona per una normale attività di pattugliamento ma chi lo abbia incaricato di tenere d'occhio la Open Arms non è chiaro. L'interrogativo è delicato, perché il titolare della Difesa era all'epoca la grillina Elisabetta Trenta, che ieri viene interrogata nell'aula del processo, dice di non sapere nulla della missione del sommergibile, poi spara a zero sull'ex collega di governo, scaricando per intero (o quasi) su di lui la responsabilità di avere bloccato l'accesso della Open Arms in un posto sicuro.
La Trenta ammette, e non poteva fare altro, di avere firmato anche lei il primo decreto che imponeva l'alt alla nave. Ma spiega che quando il decreto dovette essere ripetuto, in seguito all'annullamento del Tar del Lazio, a firmare fu solo Salvini mentre lei si tirò indietro «perché a bordo la situazione era peggiorata». È un siluro alla linea difensiva di Salvini, che ha sempre sostenuto che le decisioni sugli sbarchi dei migranti erano prese collegialmente dal governo gialloverde. Scaricare su di lui tutta la responsabilità significa esporre il leader leghista al rischio di una pesante condanna per sequestro di persona. Non a caso, ieri insieme alla Trenta a prendere le distanze da Salvini in udienza è un altro ex ministro pentastellato, l'ex titolare delle Infrastrutture Danilo Toninelli: a costo di scontrarsi con la senatrice Bongiorno difensore di Salvini: «Mi spiace dirlo, ma lei, signora avvocato, ha detto una falsità. Non c'è mai stato un Consiglio dei ministri con all'ordine del giorno la questione che trattasse il caso Open Arms o qualsiasi altro caso di sbarco di una ong».
Salvini definisce la deposizione della ex collega Trenta «pittoresca», ma l'impressione è che consideri la misteriosa faccenda del sommergibile un pezzo di una manovra il cui bersaglio è lui medesimo.
Anche perché, come sottolinea la Bongiorno, «se le anomalie della Open Arms e indicate nella informativa fantasma" fossero state rese note potevano essere diverse le decisioni del Tar, del Senato e anche del giudice che ha rinviato a giudizio Matteo Salvini».
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