C'è il dato numerico e c'è il dato politico.
Il primo, la matematica è implacabile, dice che il Parlamento europeo non era mai stato così avaro nel voto di investitura di una nuova Commissione. Solo 370 sì, peraltro con il contributo di Ecr (24 voti a favore di Fdi che ha fatto quadrato a sostegno della vicepresidenza esecutiva di Raffaele Fitto, più altri 9 «sì» in ordine sparso dal gruppo dei conservatori) determinante a superare la soglia psicologica della maggioranza assoluta (361). Rispetto ai 401 portati a casa a luglio, Ursula von der Leyen perde 31 voti. Sui quali più che gli annunciati distinguo dei socialisti di S&D e dei verdi dei Greens pesano i 22 «no» dei popolari spagnoli, ostili alla vicepresidenza della socialista Teresa Ribera, ritenuta tra i principali responsabili dell'alluvione di Valencia. Mai una Commissione era partita con numeri così esigui. Con von der Leyen che per il suo bis ha scavalcato il primato negativo di Jacques Santer. Era il 1995 e ottenne solo 417 «sì» (ma allora l'Eurocamera contava 626 eurodeputati contro i 720 di oggi).
Fatti i conti con una matematica che è inesorabile nel raccontare una Commissione che non è mai stata numericamente così debole, c'è poi il dato politico. E dice una cosa chiara: von der Leyen sapeva che avrebbe perso voti in corsa (magari non credeva che il Partido popular spagnolo avrebbe tirato dritto e sperava di arrivare a 390-395), eppure non ha avuto esitazioni. E ha spostato il baricentro della nuova Commissione a destra, formalizzando il cambio di rotta con la scelta di dare una vicepresidenza esecutiva a Fitto (unico esponente di un gruppo che a luglio si era espresso contro la «maggioranza Ursula»).
Lo ha fatto nella convinzione che la legislatura europea che andrà avanti fino al 2029 si dovrà relazionare con uno spostamento a destra degli equilibri non solo europei, ma anche globali.
Nel Vecchio continente, infatti, i due principali leader socialisti in carica - in Germania Olaf Scholz e in Spagna Pedro Sánchez - sono alle prese con giganteschi problemi interni. E in quella che è sempre stata la cosiddetta «locomotiva d'Europa» si andrà a votare a febbraio, con il nuovo governo tedesco che non entrerà in carica prima di marzo. Insomma, gli unici primi ministri socialisti davvero in sella sono la danese Mette Frederiksen e il maltese Robert Abela. Un po' poco per indirizzare le decisioni del Consiglio Ue.
Uscendo dall'Europa e guardando al di là dell'Atlantico, von der Leyen è ben consapevole che dal 20 gennaio (giorno dell'inauguration day a Washington) gli Stati Uniti cambieranno faccia. E il rapporto che Bruxelles imposterà con Donald Trump sarà determinante. Un fattore che favorisce evidentemente Giorgia Meloni, che ha dalla sua non solo il fatto di essere l'unica premier di un Paese fondatore dell'Ue che ha un governo solido, ma pure la circostanza di avere un canale diretto con Trump. Un'intesa che non è solo politica, ma che si cementa nel rapporto personale tra Meloni e Elon Musk. Non a caso, da Bruxelles rimbalzano voci sulla premier italiana che starebbe favorendo un futuro meeting (probabilmente da remoto) tra Trump e von der Leyen. Non oggi, ma nel 2025. Perché forma e bon ton istituzionale dicono che fino al 20 gennaio il presidente degli Stati Uniti in carica resta Joe Biden. Un contatto che Meloni può favorire e che Trump (che con Emmanuel Macron non ha buoni rapporti) non disdegnerebbe. Sullo sfondo la questione dazi. Con l'Ue che, nonostante tutto, è interessata a trattare con Washington piuttosto che muoversi sul fronte cinese.
Insomma, numeri a parte, ieri von der Leyen ha formalizzato quella «maggioranza à la carte» che il Ppe ha intenzione di far
sua per tutta la legislatura. Non è un caso che il capo-delegazione di Fdi-Ecr, Carlo Fidanza, insista sul fatto che «oggi i numeri sono diversi da quelli della scorsa legislatura» e «la Commissione ne dovrà tenere conto».
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