«Nessun deficit democratico». È con la strategia della negazione delle accuse, rivolte settimanalmente a Budapest dalla Commissione europea e sistematicamente rispedite al mittente dal premier Viktor Orbán, che l'esecutivo ungherese evoca stavolta lo spettro di una possibilità estrema, che comincia a prendere forma come un incubo. Mai in modo tanto netto, l'Ungheria aveva infatti palesato le conseguenze di un amore giunto quasi al capolinea: quello che ha finora tenuto insieme nella stessa casa continentale, l'Ue, Paesi dalle differenti visioni della contemporaneità.
«La questione - spiega il ministro delle Finanze Mihály Varga in un'intervista tv - potrebbe assumere una nuova prospettiva nel momento in cui prevediamo di diventare contributori netti dell'Unione», e cioè entro il 2030. Stop. Poco più di un telegramma, ripreso ieri dalle agenzie per chiarire che non manca tanto al giorno in cui l'Ungheria risulterà essere tra i Paesi che versano al bilancio comune del Vecchio continente più soldi di quanti ne ricevano. E a quel punto, insiste il N.2 di Orbán, un amore trascinato principalmente dalla volontà di rilancio delle economie nazionali attraverso i fondi comunitari del Recovery potrebbe finire con una porta sbattuta. E col non ritorno a casa di Budapest.
Certo, si tratta di un'ultima istanza. Ma l'ipotesi di addio è ancor più plausibile, ripete il ministro ungherese, «se gli attacchi di Bruxelles proseguiranno su scelte di valori». Perché finora tra i temi che hanno acceso la «questione ucraina» e inasprito la contesa, c'è stato anzitutto quello dei diritti Lgbt; a detta di Bruxelles tutt'altro che rispettati dal governo Orbán. E per cui è stata aperta una procedura d'infrazione contro l'Ungheria.
Il premier magiaro si è imbestialito. Ha accusato la Commissione Ue di «pressioni» e «doppiopesismo». Su Facebook ha lanciato un referendum sulla norma che vieta la promozione dell'omosessualità nei confronti dei minori, definendo sistematicamente l'azione di Bruxelles «puro banditismo giuridico». Per il premier, la Commissione non avrebbe infatti alcuna competenza in materia, e ciononostante «vuol costringerci a fare entrare nelle scuole attivisti-Lgbt mentre l'educazione dei figli in materia di sessualità è competenza esclusiva dei genitori».
Dopo il lancio del referendum, quasi 30mila persone sono scese in strada per manifestare contro il magiaro. Ieri è intervenuta pure la ministra della Giustizia, Judit Varga, per denunciare «l'abuso di potere della Commissione» e accuse basate su fonti «faziose». Ma il rispetto dei diritti omosessuali è solo l'ultimo terreno di scontro. Già a inizio luglio, la Commissione aveva infatti sospeso le procedure per l'approvazione del Pnrr ungherese, posticipate a fine settembre. Il documento necessario per avere accesso ai denari comunitari per il rilancio post-Covid doveva essere approvato entro il mese scorso, invece la Commissione ha congelato i fondi, esprimendo forti perplessità sulla corruzione diffusa nelle alte sfere di Budapest. Nelle ultime 48 ore si è arrivati al colpo sotto la cintura: «Uscire dall'Ue? Se ci fosse un quesito del genere ora, sarei tra quelli che votano Sì», è la versione del ministro delle Finanze Varga, che ipotizza di riconsiderare l'adesione all'Ue, salvo alleggerire: «Torniamoci sopra tra qualche anno...». Dall'inizio della battaglia di azioni e dichiarazioni, l'esecutivo Orbán non va più per il sottile.
Nonostante la presidenza di turno Ue sia oggi di un suo fedele alleato come Janez Jana, o forse anche per questo, l'esecutivo magiaro sostiene che in Ungheria prevale un «genuino pluralismo» nei media e cerca margini di manovra minacciando la «Huxit». Entro «fine decennio».
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