Il prezzo del coraggio? Fino a tre mensilità di stipendio. Lo hanno scoperto a loro spese - è proprio il caso di dirlo - gli operatori sanitari che in tutta Italia hanno deciso di mollare il loro posto di lavoro - chi in una struttura pubblica, chi in una struttura privata, chi in una cooperativa - ed entrare in guerra contro il Covid-19. Per accettare l'offerta voluta dal governo bisognava prendere servizio negli ospedali in cronica carenza di personale il 15 aprile, altrimenti l'assenza era considerata rinuncia. C'è chi ha riposto il sogno nel cassetto e c'è chi ha mollato il giorno prima, dimettendosi. Chiamatelo «senso del dovere» o «l'occasione della vita».
Il guaio è che molte aziende (legittimamente) hanno deciso di non rinunciare al preavviso di licenziamento. Questo in qualche caso - che il Giornale ha verificato - ha comportato che i lavoratori che hanno deciso di accettare la chiamata a prendere servizio nelle strutture pubbliche hanno perso chi una mensilità (per gli infermieri parliamo di circa 1.500 euro), chi addirittura tre. E in qualche caso il datore di lavoro è una Asl. Lo prevede la legge, di solito chi ti assume per strapparti alla concorrenza se ne fa carico. Ma questa non è una guerra tra multinazionali per contendersi un manager di successo. Qui parliamo di eroi che hanno rinunciato a una scrivania o a un ambulatorio per tornare in corsia, con turni interminabili, con la paura di morire, vivendo lontano dalle proprie famiglie per non contagiarle. E il risultato qual è? Passare da un nemico invisibile a un altro: la burocrazia, un calvario di avvocati. In teoria l'ennesima battaglia di carte bollate che intaserà ulteriormente i tribunali dovrebbe avere un esito già scritto. Il primo famigerato Dpcm in effetti «prevede la non applicabilità di sanzioni per i sanitari», dicono alcuni legali del personale sanitario (che preferisce rimanere anonimo) che ha segnalato la stortura al Giornale, ma in alcuni casi gli amministratori delle aziende pubbliche e private hanno deciso di far valere i loro diritti: per la serie «impugnate il provvedimento, se credete. Ci vediamo in tribunale».
I casi segnalati al Giornale non sono isolati. Ma ogni Regione ha agito a macchia di leopardo. Nel Lazio chi ha deciso di tornare in corsia ha avuto una corsia preferenziale, come è giusto: escluse le penali, ferie e permessi conservati. E in Toscana diverse Asl hanno assunto infermieri in forza ad alcune cooperative sociali, che ovviamente non hanno avuto la possibilità di negoziare il preavviso, e il sindacato ha chiesto alla Regione di farsi carico degli eventuali costi. In Campania, invece, secondo quanto risulta al Giornale, in qualche caso i medici e gli infermieri si sono trovati da soli, senza difese. «Basterebbe un decreto legge», è lo sfogo di un camice bianco, che a una battaglia legale preferisce pagare e tacere. Eppure proprio in Campania c'è una delle bellissime realtà del Mezzogiorno, l'ospedale Cotugno di Napoli, che ha rappresentato un argine vero alla diffusione del contagio nel Sud.
Peraltro, è lì che c'è in corso una sperimentazione interessante: a guidarla c'è l'oncologo napoletano Paolo Antonio Ascierto, che per primo ha sperimentato la cura con il farmaco anti reumatoide Tocilizumab, ora utilizzata in tutta Italia. Funziona, pare. Solo contro la burocrazia spietata non sembra esserci cura.
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