A monte dell'intera faccenda c'è una indagine conoscitiva partita a settembre sul fenomeno dei rider, i ciclofattorini che consegnano cibo a domicilio e in particolare a tutela delle loro condizioni lavorative (venivano monitorati anche gli incidenti stradali), coordinata dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dal pm Maura Ripamonti del pool milanese Ambiente, salute e lavoro. Un'inchiesta che poi ha modificato il proprio orientamento investigativo - puntando sul nodo centrale della sicurezza del lavoratore - sulla base di una «illuminante» sentenza della Cassazione della fine del 2019 e pubblicata all'inizio di quest'anno proprio sulle tutele del lavoro subordinato, nel dettaglio appunto quello dei rider. Figure giuridicamente mal inquadrate, discusse e sfruttate al punto da diventare anche per la Suprema Corte degli ibridi assolutamente unici nel loro genere. Basti pensare che, proprio secondo questa sentenza, in certe fasi della giornata possono essere equiparati a lavoratori autonomi, ma poi, quando accettano l'ordine della piattaforma virtuale di food delivery da cui sono stati reclutati, si trasformano in lavoratori parasubordinati.
Da qui le «interviste», nel fine settimana appena trascorso, a oltre mille rider di tutte le province italiane, da Palermo ad Aosta, realizzate dai comandi provinciali dei carabinieri, dietro però diretta richiesta della Procura meneghina al Gruppo carabinieri per la tutela del lavoro di Milano, unità specializzata dell'Arma, comandati dal colonnello Antonino Bolognani. Che hanno svolto quella che loro chiamano «attività conoscitiva» in strada, cioè direttamente sul territorio, per fotografare, dalla voce diretta dei rider che lavorano per le principali piattaforme di delivery (Uber Eats, Deliveroo, Just Eat e Glovo) le modalità di svolgimento del servizio e le forme di tutela garantite, sia sotto il profilo della sicurezza che sanitario.
I carabinieri parlano di un controllo «a tutto tondo» che ha portato alla raccolta di un volume di informazioni molto ampio da rimettere all'autorità giudiziaria che quindi avrà il compito di valutarlo e assumere le determinazioni del caso. Un'inchiesta che fa parlare di sé, inutile negarlo, anche per la prossimità, solo temporale, con la realtà di sfruttamento, intimidazione e prevaricazione che sarebbe emersa dall'indagine milanese coordinata dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci e dal pm milanese Paolo Storari e del Nucleo di polizia economica della Guardia di Finanza, contro il caporalato dei ciclofattorini e che ha portato al commissariamento della milanese Uber Italy srl (Uber Eats) articolazione dell'olandese Uber International Holding BV a sua volta ponte in Europa della casa madre americana di San Francisco. La società, attraverso i gestori di due società individuali di Milano, è accusata infatti di aver «vincolato e coordinato» la prestazione lavorativa dei rider su alcune fasce orarie, pena per coloro non si fossero adeguati alle regole impartite il mancato pagamento delle consegne effettuate o la disconnessione del ciclofattorino dalla piattaforma (e dunque dalla chance di racimolare quei pochi euro).
Dalle interviste dai carabinieri ai rider in questo fine settimane emerge però un dato interessante che prende le distanze dal caso Uber Eats, facendolo apparire sui generis almeno nella prassi, non secondaria, di avvalersi di soggetti che svolgano funzioni da intermediari. Infine, se è vero che in questa indagine conoscitiva l'Arma si dovuta occupare anche dell'aspetto giuslavoristico del rapporto di lavoro, non ha però mai tralasciato in alcun modo la questione delle tutele di sicurezza, apparsa anzi prioritaria. Soprattutto in un momento tanto particolare come questo.
In cui c'è un protocollo anti Covid e chi impiega determinati lavoratori con l'obbligo quindi di metterli in sicurezza deve rispettare una lunga serie di cautele ulteriori proprio anche in relazione alle norme anti contagio.
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