Nel cortile di Montecitorio i più avvertiti comprendono che per la madre di tutte le riforme, quella della Giustizia, il momento è ora. Pierantonio Zanettin, deputato azzurro e già membro del Csm, non ha dubbi. «Non si presenterà mai un'occasione come questa per riformare davvero la giustizia. Le vicende del Csm hanno fatto capire all'opinione pubblica che qualcosa non funziona, che molto va cambiato. Ed è un passaggio fondamentale anche per rilanciare l'economia. Anche in Europa lo hanno capito. In più la magistratura, mettendo tutti nel mirino, ha creato lei stessa una maggioranza per la riforma in Parlamento». Al Senato discorsi simili li senti, invece, sulla bocca di Davide Faraone, capogruppo dei renziani che, appena l'altro ieri ha chiesto al ministro della Giustizia lumi sulla denuncia registrata di uno dei giudici del tribunale che condannò Berlusconi, Amedeo Franco, definito dallo stesso magistrato «un plotone di esecuzione». Naturalmente la risposta del Guardasigilli è stata un nulla «imbarazzato» e «imbarazzante». «Tutte le vicende relative al Csm e il fantasma di un uso politico della giustizia che aleggia sul processo a Berlusconi osserva Faraone - hanno creato un'occasione unica. A cominciare da una commissione parlamentare sull'uso politico della giustizia. Forza Italia, però, per portarci tutti a fare una battaglia del genere, deve lanciare segnali per il dopo».
Appunto, ci sono «i calcoli», perché è pur vero che ogni riforma, specie se strategica, cammina sulle gambe della politica. Detto questo, l'atmosfera è la più favorevole da trent'anni. Basti pensare che appena qualche giorno fa la commissione giustizia del Senato, in barba ai grillini, ha istituito la giornata per le vittime di errori giudiziari. O, ancora, che appena ieri il commissario Ue alla Giustizia, Didier Reynders, è arrivato a dire che «anche per il caso del Csm gli italiani credono meno all'indipendenza della magistratura». La prova è nel fatto che il protagonista di quella vicenda, il magistrato Luca Palamara, per anni «deus ex machina» dell'Associazione Nazionale Magistrati, si è trasformato, come i grandi «pentiti», in un «j'accuse» in carne ed ossa dell'attuale sistema giudiziario. I suoi ragionamenti privati riecheggiano le tesi dei più convinti «garantisti», a cominciare dal Cav, e i suoi racconti, terribili, descrivono, nei fatti, un regime. Si sente una «vittima della sinistra giudiziaria» a cui ha conteso per anni la capacità di «influenzare» le carriere dei magistrati. Racconta che i suoi guai sono cominciati quando ha utilizzato la parola «discontinuità» in privato nella nomina del successore di Pignatone a Roma. Che, dal giorno in cui coniò quell'espressione finita sai come sui giornali, l'assedio ha cominciato a stringersi, con messaggeri più o meno ufficiali, addirittura giornalisti, che lo consigliavano di ripensarci, di assecondare la nomina di un delfino di Pignatone, fino alla notizia arrivata, sempre da un cronista giudiziario, che il fascicolo che lo riguardava era arrivato al Csm. La risposta è rimasta ancora inedita, dispersa nel mare di verbali di intercettazione che lo hanno visto protagonista: «Se vogliono farmi fuori per via giudiziaria hanno capito male: io non mi fermo». Ed ancora, la voglia di non essere il «capro espiatorio» di un sistema marcio. I trojan che registrano a comando: tutta la riunione con Luca Lotti e gli altri all'hotel Champagne Palace di Roma; eppoi, appena al telefono preannuncia ad un amico la cena del giorno dopo con il procuratore Pignatone, un black out totale per coprire l'episodio. Questo e altro gli ha fatto cambiare opinione di 180 gradi sulle battaglie del passato: oggi è a favore della separazione delle carriere, «l'unico modo per contrastare lo strapotere dei Pm»; ed ancora, predica una nuova regolamentazione dell'utilizzo delle intercettazioni e si rende conto che l'unica riforma davvero temuta all'interno della magistratura è il «sorteggio» nella nomina dei membri togati del Csm. Capita quando si diventa vittime e si rilegge con altri occhi la Storia: «Al Csm mi sono occupato di alcuni aspetti legati alla condanna di Berlusconi. Nelle sedi competenti, se richiesto, parlerò. Dopo quel che è emerso è giusto approfondire. È una cosa seria». In più una previsione fosca: «Se non ci sarà una vera riforma, il meccanismo dell'uso politico della giustizia perché il vero Potere è là - si rimetterà in moto e nessuno lo fermerà. I segnali già ci sono. Io vado avanti. Vogliono cacciarmi dalla magistratura, ma al processo chiamerò a deporre tanti testimoni, come nei grandi processi politici».
Già, i segnali ci sono. Basta guardare le nomine in Cassazione dove gli eredi di Magistratura democratica hanno fatto tombola; o, ancora, al rinvio, di fatto «perpetuo», dell'udienza disciplinare del giudice Ferdinando Esposito, figlio del giudice che condannò il Cav. Piccoli fatti, ma in Italia, come dimostra il caso Palamara, la giustizia è condizionata da piccoli fatti che, a loro volta, interferiscono sui grandi fatti della politica. E mai come ora tutti i protagonisti della scena sono nel mirino della magistratura: da Salvini a Renzi; da Berlusconi allo stesso Zingaretti. E anche sui grillini c'è un gran vociare sui rapporti tra la Casaleggio Associati e la Cina.
Solo che, per inerzia o per paura, la politica sta ferma. Si trastulla. Sei mesi fa a Renzi che chiedeva a Salvini un'alleanza sulla giustizia, il leader della Lega rispose: «Quando vado al governo la riforma della giustizia la faccio io». Da allora di un governo Salvini non si è vista l'ombra, neppure delle tanto agognate elezioni che non sono all'orizzonte, visto che in un Paese in stato d'emergenza fino a dicembre non si potrà votare e dopo, con la riduzione dei parlamentari, l'ipotesi sarà ancora più peregrina: si sono moltiplicati, invece, i provvedimenti giudiziari a carico dell'ex ministro dell'Interno. Nel giro di qualche settimana il Senato sarà chiamato anche a decidere sull'autorizzazione a procedere per l'accusa di sequestro dei migranti sulla nave Open Arms.
E torniamo alla grande occasione che rischia di sfumare. Ma anche al fatto che tutti vogliono il Cav al governo, persino Prodi. E allora, visto che all'indomani dalla sua esclusione dal Senato Berlusconi dichiarò «sarò in politica finché non avrò dato una riforma della giustizia agli italiani», forse varrebbe la pena di provarci. Anche perché, una volta tanto che l'Europa ci chiede una cosa giusta, perché non farla, perché non tentare? Una riforma della giustizia agognata per trent'anni varrebbe sicuramente un altro governo. «Un'ipotesi del genere cambierebbe le cose confida l'azzurro Roberto Occhiuto , potrebbe valerne la pena». E già solo il fuoco di fila quotidiano che il network giustizialista per eccellenza, Il Fatto, conduce contro il Cav per scongiurare questa prospettiva, dimostra che questa sarebbe la strada giusta. Anche perché, quale sarebbe l'alternativa? Sperare in elezioni che probabilmente arriveranno solo nel 2023: nel contempo ci sarà un altro capo dello Stato e, di conseguenza, un altro presidente del Csm.
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