Non lo pronunciano nemmeno, se non con la sua iniziale, ma ne sono ossessionati. Benito Mussolini (dovevamo scrivere M.?) è una delle ragioni sociali del mondo progressista italiano. La sinistra sta al fascismo come il servizio di pompe funebri sta alla morte. Il primo non si augura esplicitamente l'arrivo della seconda, ma diciamo che gli fa abbastanza comodo. Così, sull'onda del successo della serie televisiva «M. Il figlio del secolo», ispirata dal libro di Antonio Scurati e interpretata da un dolentissimo Luca Marinelli, il Ventennio è tornato a svettare in tutte le classifiche di gradimento. La sua versione caricaturale, ovviamente. Che trasforma in farsa anche quello che è stato tragedia e popola due decadi di storia italiana solo di macchiette grottesche, pericolosi psicopatici e criminali comuni. Ma il fascismo è stato anche un fenomeno di massa che ha riguardato molte più persone di quelle che racconta la storiografia da fiction, talune insospettabili. C'è una frase attribuita a Winston Churchill che, con la forza dell'iperbole, ci restituisce un selfie efficace dell'epoca: «In Italia sino al 25 luglio c'erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l'Italia abbia 90 milioni di abitanti».
Tra quei 45 milioni ce n'era anche uno, più celebre degli altri, che prima di iniziare una gloriosa e insuperata carriera da giornalista di sinistra nel nome dell'antifascismo è stato fascistissimo e, dopo averlo taciuto per anni, lo ha rivendicato con orgoglio in un libro di qualche anno fa: Eugenio Scalfari. Eppure, lo Scalfari di allora era lo stesso Scalfari che abbiamo conosciuto nel Dopoguerra, non era né una macchietta, né un pazzo, né un criminale. Era un uomo del suo tempo che, come milioni di italiani, aveva subìto la fascinazione di Mussolini e del fascismo.
«Sono diventato fascista nel 1930, a sei anni, indossando la divisa di Balilla scrive il fondatore di Repubblica, con la disinvoltura di chi conosce lo srotolarsi della storia, nel libro «Grand Hotel Scalfari», Marsilio -. Lo sono stato sino al 1943, quando, a meno di vent'anni, mi tolsero la divisa di Giovane fascista. Ne ebbi un grande dispiacere che presto divenne smarrimento, stordimento e infine mi aprì un nuovo orizzonte e mi liberò. So che cercavo nella vacuità insolente della divisa un carattere, una personalità ma oggi, che sarebbe facile mettere in ridicolo sia quel bimbo di sei anni sia quel ventenne in divisa, oggi, se mi sdoppio e guardo quel bimbo biondo e quel ragazzo magro, ho solo voglia di rendere giustizia alla loro giovinezza».
Sì, perché il barbuto giornalista non abbandonò il fascismo per antifascismo, ma ne fu cacciato, se possibile, per un eccesso di fascismo: per aver denunciato su un giornale di regime alcune speculazioni edilizie nel nascente quartiere dell'Eur. Voleva essere il più puro ed è finito epurato.
Ma torniamo ai racconti senili della luminosa giovinezza in camicia nera: «Non mi sono mai vergognato di quella giovinezza nei Guf e ho acconsentito che a Repubblica mostrassero una foto dove io, accanto a mia madre, sono in orbace. Credo, anzi, che tutto quel mio essere stato convintamente fascista abbia poi reso solido il mio lungo antifascismo. (). Io sono come gli animali che avvertono i terremoti quando stanno per arrivare: da allora, da quel lontano 1943, fiuto il fascismo quando sta per formarsi. So di essere stato più fortunato di tanti altri: avevo vent'anni quando smisi di essere fascista, un'età in cui ci si poteva davvero sporcare le mani. Nonostante io non abbia vissuto la doppiezza né la rimozione dei fascisti che finsero di essere antifascisti, ci sono ogni tanto dei sapientissimi studiosi che trovano un mio scritto fascista e vorrebbero che io ingaggiassi con loro una battaglia sulla purezza. Ma io non ho ricordi da aggiustare».
Non, je ne regrette rien, sembra ribadire uno Scalfari che del fascismo non è solo uno spettatore, ma anche un piccolo protagonista che stravede per il ministro Bottai «razzista ma intelligente coltivatore di talenti»: «Per quanto mi riguarda, il mondo dei Guf, oltre che permettermi, diciottenne, di scrivere, mi diede l'opportunità di ingaggiare una polemica non con qualche altro sbarbatello come me, ma direttamente con il ras Roberto Farinacci, il quale poi replicava ai miei articoli sulla Gazzetta di Cremona. Lo raccontai molti anni fa in un'intervista che mi fece sul fascismo Pietrangelo Buttafuoco, invitando, chi lo avesse voluto, a fare una ricerca in emeroteca. Figuriamoci se mi spaventano le polemiche sui miei vent'anni».
Insomma, per Scalfari, ricordare la sua gioventù fascista non era una figura di m (rigorosamente con la minuscola), era accettare con naturalezza
un tragitto della propria vita e della propria storia. O, forse, lo diceva perché non aveva rivisto la sua gioventù deformata nella caricatura di M. Ma i fascisti erano fatti anche come lui, anche se molti lo dimenticano.
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