Per fortuna i neonati non ricordano l'attimo in cui vedono per la prima volta la luce. Ma forse - un giorno, quando sarà grande - qualcuno dovrà spiegare alla piccola figlia di Amra (Amra è una mamma di 23 anni, italiana di origine bosniaca, che sta scontando la pena a Rebibbia) perché in un Paese, cosiddetto «civile», sua madre l'abbia partorita dietro le sbarre di una cella, da sola, senza l'assistenza di un medico e col solo aiuto di una compagna detenuta, pure lei incinta.
A far emergere il caso, la denuncia del Garante dei detenuti che avanza un'ipotesi inquietante, dove però campeggia un «forse» di troppo: «È accaduto perché, forse, i giudici erano tutti in ferie». Accusa pesante.
L'autorizzazione per cure adeguate non è arrivata in tempo per il motivo adombrato dal Garante? O la ragione è un'altra? Sta di fatto che una donna ha subìto un trattamento ignobile: umanamente vergognoso e penalmente perseguibile.
Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato della polizia penitenziaria Spp, va giù duro: «Quando finalmente il medico è arrivato, allertato dagli agenti della penitenziaria, il parto si era già concluso. Un episodio che dovrebbe far vergognare la ministra della Giustizia, Maria Cartabia, prima di tutto come donna. Inviare gli ispettori ministeriali dopo quanto è successo è tardivo, inutile e non può servire a salvare la coscienza». Anche il Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria), pur dando una versione diversa dell'accaduto si dichiara «rammaricato per quanto accaduto». Intanto ad Amra, successivamente ricoverata all'ospedale «Pertini» di Roma, nessuno ha spiegato nulla dell'«intoppo burocratico» all'origine del fattaccio (che risale a una decina di giorni fa) né le ha chiesto scusa; l'unica notizia positiva è che ora, sia lei sia la piccola, stanno bene.
Un'odissea evitabilissima considerato che, pochi giorni prima del parto, Amra era stata ricoverata al «Pertini» per una minaccia di aborto. Peccato che, dopo una visita di controllo, la detenuta sia stata costretta a tornare in carcere; di lì a poche ore la donna ha quindi partorito in cella in condizioni a dir poco precarie, per poi essere ricondotta nella clinica da cui era appena stata trasferita e dove è rimasta 5 giorni dopo aver dato alla luce la sua quarta bimba. A seguito dei primi accertamenti eseguiti dal Dap risulta che la donna, «in istituto dal 23 giugno scorso, in data 1 agosto aveva presentato una istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare». Segue un iter che dimostra l'estrema farraginosità del sistema: «Il 18 agosto la detenuta veniva inviata per accertamenti urgenti in ospedale, dal quale rientrava in istituto lo stesso giorno».
Eccolo il punto-chiave: se la donna era stata ricoverata per «accertamenti urgenti» (leggi minaccia di aborto) che senso ha aver ordinato il suo «immediato rientro in cella»?
Sul punto il Dap non risponde, preferendo optare per una linea pilatesca: «Si tiene a precisare che nessuna responsabilità può essere addossata all'istituto penitenziario che
si è adoperato per velocizzare al massimo le comunicazioni con l'autorità giudiziaria e le autorità sanitarie competenti».Insomma, poco ci manca che Amra e la figlia debbano anche «ringraziare» per il trattamento ricevuto.
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