Il Pd bastonato finge di esultare. Letta si accontenta di restare primo all'opposizione

La batosta c'è e, per quanto prevista, è pesante. Il Lazio è perso, dopo due legislature di governo. La Lombardia, motore d'Italia, resta un miraggio lontano

Il Pd bastonato finge di esultare. Letta si accontenta di restare primo all'opposizione

La batosta c'è e, per quanto prevista, è pesante. Il Lazio è perso, dopo due legislature di governo. La Lombardia, motore d'Italia, resta un miraggio lontano. Ma il Pd si risveglia - sia pur da sconfitto - quasi incredulo di essere ancora vivo. Come l'opossum della Virginia, è riuscito a sopravvivere «fingendosi morto», secondo la cinica ma efficace sintesi di Enrico Mentana. In Lombardia recupera persino un paio di punti (dal 19 al 21%) rispetto alle politiche di settembre, nel Lazio si assesta attorno al 20%. «Rimaniamo saldamente seconda forza politica del Paese, e primo partito dell'opposizione», celebra il segretario uscente (da cinque mesi) Enrico Letta. Sui social viene addirittura fatta circolare una «card» che celebra il fatto di essere «saldamente secondi» e ringrazia gli elettori di tanta grazia. Magra consolazione, se gli avversari vincono superando la maggioranza assoluta. Ma per il momento, paradossalmente, l'avversario più temuto dai dem non è quello esterno - il centrodestra - ma quello interno: i propri alleati, sia pur a geometria variabile.

La debacle del Terzo Polo da una parte e dei Cinque Stelle di Conte dall'altra diventano una sorta di balsamo sulle ferite di un partito che da mesi (o persino anni) si dilania sul tema: buttarsi su Conte o buttarsi su Calenda e Renzi? Problema risolto: la destra vince e governa, ma in compenso gli alleati del Pd se la prendono in saccoccia. «L'Opa contro di noi ha fatto male a chi la ha tentata», esulta Letta. «Basta ricatti, le carte le diamo noi», tuona Alessandra Moretti. «Spero che la lezione sia arrivata forte e chiaro a Conte e Calenda: non si può prescindere dal Pd per costruire l'alternativa», ammonisce Alessandro Alfieri.

A tentare un controcanto, a proprio uso come candidato segretario alle primarie di fine febbraio, è Stefano Bonaccini: il risultato di ieri è «la prosecuzione della sconfitta netta nelle politiche dello scorso anno», sottolinea. «È inutile che ci giriamo intorno. Può consolare vedere il Pd prima forza del centrosinistra, e senza il Pd è impossibile l'alternativa. Ma proprio il Pd ha bisogno di cambiare, a partire dal gruppo dirigente». Che prova a rilanciare l'idea di un partito a «vocazione maggioritaria», che non «delega» i territori moderati o sinistrorsi a Calenda o Conte: «Voglio saper riconquistare anche i voti di gente che ha votato a destra ma non è diventata ideologicamente di destra». La sua avversaria Elly Schlein ha un'altra ricetta: «Ora bisogna cambiare per davvero, nella visione, nei volti e nel metodo. Noi dobbiamo fare la sinistra, quella che si batte per chi fa più fatica». Si vedrà. Intanto i candidati governatori sconfitti non nascondono la propria irritazione verso il partito. «Certo il congresso, con le sue lunghissime procedure, non ci ha aiutati», dice il laziale Alessio D'Amato. Pierfrancesco Majorino è ancor più tranchant: «Abbiamo fatto una campagna elettorale senza leader nazionali. Non esistono altri casi al mondo di partiti che celebrano un congresso durante elezioni di questa portata».

Poi un'accusa diretta al Nazareno: «Non si può scegliere il candidato per il governo di una regione come la Lombardia a

soli due mesi dal voto». Annuncia che comunque si dimetterà dal Parlamento europeo per restare in Regione. E non nasconde il pesante convitato di pietra del caso Qatargate che si è abbattuto sui dem: «Non è stato d'aiuto».

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