Il Pd dà la colpa a Grasso. La replica: scuse patetiche

I renziani contro il presidente del Senato: non ha coraggio. L'ex magistrato: che stile, ecco perché me ne sono andato

Il Pd dà la colpa a Grasso. La replica: scuse patetiche

Età, studi insufficienti, pessima selezione della classe dirigente, generale decadimento di una sensibilità che un tempo si sarebbe detto semplice «galateo istituzionale». Ma anche un sentimento di paura che si va diffondendo sempre più al Nazareno nei confronti di quello che le vestali renziane definiscono come «effetto Grasso». Non sulle elezioni siciliane, di sicuro, bensì sulle prossime Politiche - sempre che il presidente del Senato, a legislatura finita, accetti sul serio di prendere in mano le sorti della composita sinistra extra-pd.

Ma se non vogliamo finire per abbassare l'asticella fino al «rosicamento» per l'ennesima cocente sconfitta, ci sono segnali davvero preoccupanti, e volontà suicida, dietro l'ultima incredibile querelle nata dall'incapacità del Pd a darsi una motivazione valida che non sia la ricerca di un «capro espiatorio» per il terzo tonfo in un anno. Lo aveva fatto a urne appena chiuse, con l'abituale dialettica rozza, il plenipotenziario siciliano Davide Faraone, imputato numero uno trinceratosi dietro un canino concetto di fedeltà assoluta al Capo («io, il più renziano dei renziani» si autodefiniva). «Siamo stati due mesi ad aspettare la risposta di Grasso... Micari ha avuto il coraggio che Grasso non ha avuto», bofonchiava il cinereo Faraone in tivù. E Micari, dal canto suo, scaricava la colpa sulle «divisioni romane» e sul bersaniano Fava (ma, pur sommando le due sinistre, si è ben lontani dal centrodestra e M5s).

Sperando in una pronta smentita da parte di Renzi, o almeno in qualche autorevole presa di distanza, il numero uno di Palazzo Madama attendeva il mattino successivo per una nota di replica, affidata al portavoce Alessio Pasquini. Anzitutto sottolineando la rozzezza dell'attacco: «Sullo stile e l'eleganza dei commenti di alcuni importanti esponenti del Pd in merito al coraggio del presidente Grasso non resta che confermare ancor di più le motivazioni per le quali il presidente si è dimesso dal gruppo del Pd: merito, metodi e contenuti dell'attuale classe dirigente del partito sono molto lontani da quelli dimostrati dal presidente...». Si spiegava quindi come il presidente avesse declinato l'invito a candidarsi nei tempi consentiti, avendolo ritenuto «impossibile per motivi di carattere istituzionale» e «ardito» dal punto di vista politico. Detto per inciso, al Nazareno non guasterebbe un piccolo corso di ripasso: mai nella storia un presidente del Senato si è dimesso per gareggiare in un'elezione regionale. Motivi di salute a parte, Palazzo Madama è stato lasciato anzitempo dal principale inquilino soltanto per assurgere al Quirinale (Cossiga) o a Palazzo Chigi (Fanfani per due volte). Volendo andare per il sottile, ci fu persino Enrico De Nicola, già capo provvisorio dello Stato, che nel giugno del '52 si dimise per protesta sull'andamento delle votazioni sulla legge elettorale definita «truffa» (a qualcuno dovrebbero fischiare le orecchie).

Alla nota del portavoce non mancava il veleno: «Imputare a Grasso il risultato che si va profilando per il Pd, peraltro in linea con tutte le competizioni amministrative e referendarie, è quindi una patetica scusa, utile solo a impedire altre e più approfondite riflessioni...». Veleno che non mancava di diffondersi tra i corridoi della sede pd, con la minoranza in forte subbuglio per l'improvvido attacco a un presidente del Senato che, tra l'altro, non ha neppure ancora scelto con chi stare. «Rinfacciarsi le colpe - scriveva Gianni Cuperlo, leader di una minoranza sempre più attonita - è la scelta peggiore, mentre aggredire la seconda carica dello Stato aggiunge solo confusione e offese... Servono coraggio e umiltà, serve una svolta nelle scelte e nella selezione delle classi dirigenti...».

Franco Monaco, deputato prodiano, insisteva: «Prendersela con Bersani e Grasso da parte dei renziani è un patetico esorcismo, un maldestro escamotage che semmai attesta quanto sia cocente la sconfitta». Ma una ferita che brucia rischia la cancrena, se non si cura col disinfettante e l'antidolorifico. Gli psicofarmaci non funzionano.

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