Il Pd rimane sull'Aventino: giochi già fatti, stiamo fuori

Respinte le offerte di dialogo. Renzi studia la riscossa e fa il gufo sull'ipotetico governo grillini-centrodestra

Il Pd rimane sull'Aventino: giochi già fatti, stiamo fuori

Uno: sedersi e prendere ossigeno, sospirare forte. Due: appiattirsi e respirare piano, sempre più piano, fino a rendersi impercettibile. Tre: rannicchiarsi come rana e raccogliere forze per un gran balzo.

Degli esercizi che impegnano l'ex premier nella sua personalissima idea di rivincita politica - tra lo yoga, la meditazione zen e il ritorno del conte di Montecristo - il terzo sembra più complicato con il passare delle ore. Anche se non manca il conforto della fede: quella dei suoi agguerritissimi ultrà intenzionati a vender cara la pelle. Non aspettano altro che il Capo torni, suoni la riscossa, batta (almeno) un colpo. Oggi pomeriggio, volente o nolente, Matteo Renzi lo darà, costretto a registrarsi nella sala Nassirya al Senato che voleva cancellare (il Senato, non la sala). «Senatore semplice», come s'è dichiarato dopo la rotta epocale delle elezioni. A offrirgli rifugio, dopo le informazioni dei commessi, gli uffici da ex premier che gli sono stati assegnati, vicino di stanza di Napolitano e del senatore a vita Monti, a Palazzo Giustiniani, piano sottostante l'appartamento del futuro presidente. Quindi parteciperà alla prima riunione intergruppo.

Fino a ieri, Renzi risultava ancora (anzi: sempre più) scomparso dalle cronache, anche se non dai tabulati telefonici e dalle chat che indirizzano le mosse dei suoi seguaci. Refrattario a partecipare financo al «caminetto» indetto ieri sera al Nazareno dal segretario Martina con tutti i maggiorenti del partito: gli «amici» (Orfini, Guerini, Rosato, Delrio) e i «nemici» (Franceschini, Orlando, Emiliano, Zanda). L'assenza sdegnosa anche di Boschi e Lotti non priverà l'ex leader del resoconto del primo summit collegiale per decidere la strada da seguire nelle imminenti votazioni istituzionali. Per niente scosso dalla percezione che un Aventino possa rivelarsi fatale per il suo Pd, l'ex segretario conta su poche mani (e bocche) amiche nonché sull'incancrenirsi della situazione. In questo senso, la prospettiva di un governo che metta assieme M5s e centrodestra viene considerato con la (pericolosa) sufficienza di un esperimento sconclusionato, destinato a fallire, ma anche capace di aprire praterie sconfinate all'opposizione pd. «Faremo battaglia», annunciava ancor ieri il fedelissimo Marcucci, che cercherà di conquistarsi i galloni di capogruppo a Palazzo Madama (alla Camera dovrebbe farcela con disinvoltura il doroteo Guerini), nonostante i renziani siano ormai pari o addirittura in minoranza. Ma Renzi traccia la sua linea con il difetto ottico che lo contraddistingue da sempre e che piega la realtà al suo Ego. Le possibilità concrete che il Pd rientri in gioco, come invano chiede il Quirinale e non solo, sono legate al fallimento degli altri. L'«aiutino» che Forza Italia ieri ha voluto offrire in un incontro tra Romani, Brunetta e Guerini è stato rigettato sdegnosamente. «Il Pd è una forza importante e dev'essere coinvolto nell'accordo al quale si sta lavorando», il ramoscello d'ulivo dei forzisti. «Il Pd non può partecipare a incontri i cui esiti sono già scritti. Se c'è già un accordo sulle presidenze da parte di qualcuno, è bene che chi l'ha fatto se ne assuma tutta la responsabilità», la risposta che trasuda di risentimento e calcoli renziani.

Matteo si chiude a riccio, nonostante al Senato gran parte del

gruppo sarebbe più che lieto di votare per Romani. Lui invece punta sulla frana di qualsiasi intesa e tifa sfegatatamente per lo sfascio. Malefico (o meraviglioso) sortilegio che ha fatto di Renzi il «gufo» che non t'aspetti.

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