Il voto è l'indicazione di sintesi, lo strumento con cui il docente comunica all'allievo e alla famiglia la sua valutazione del percorso di apprendimento. Infatti nel giudizio finale valgono solo quelli positivi: i debiti non sono assistiti da un voto.
Ora c'è chi propone di limitare le insufficienze al cinque e al quattro, senza poter usare voti più bassi. La ragione? Prendere due o tre sarebbe umiliante per lo studente. Magari è così. Umiliare è sempre un atto grave e non costruttivo. L'insegnante che ritenesse di usare quei voti dovrebbe certo farlo con prudenza e attenzione, senza umiliare ma facendo pesare la gravità dell'impreparazione. Imbarazzo, frustrazione, mortificazione: quando li proviamo ci ripromettiamo di agire diversamente, così da non inciampare più. Lo stesso pungolo può valere per gli alunni. Sicuro che sia meglio eliminare questo strumento di comunicazione? Immaginiamo due studenti. Uno ha studiato poco e merita quattro; sa che preparandosi e prendendo due volte sette potrà tornare in media alla sufficienza. Un altro merita due, perché appare completamente distante e distaccato dallo studio della materia; dovrebbe inanellare due volte otto per avere la sufficienza. Possibile, certo. Ma se invece ci fosse un problema che va oltre non aver studiato una volta? Qual è l'interesse dello studente e della famiglia? Che il docente segnali l'esistenza di un problema oppure no? Magari si tratta di un momento, di un episodio e tutto passa. Ma altre volte può essere necessario un intervento, un aiuto. La finalità della scuola è la formazione, non il giudizio, e i voti servono durante l'anno per tenere studenti e genitori informati sulla performance. Come nelle analisi mediche è importante sapere di quanto i valori siano oltre il limite di tranquillità, così a scuola è utile sapere quanto si è distanti da un apprendimento accettabile.
In subordine, va detto che il quattro come paracadute allenterebbe molto la pressione anche per i bravi, tanto è facile recuperare. Gli alunni fanno questi calcoli. Qui però non si tratta di non stimolare i bravi, quanto di consentire al docente di comunicare e alle famiglie di conoscere l'esistenza di un disagio o almeno di un disallineamento.
Non tutte le nozioni sono utili e ignorare la «guerra dei cent'anni» va bene. Ma fregarsene di studiarla e fare scena muta è un'altra cosa. Perché questo è il punto di fondo: a scuola bisogna apprendere le cose che vengono insegnate. Non si può essere diversamente bravi.
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