Perché l'Italia non ha bisogno di essere messa sotto tutela dai francesi

Un inestricabile intreccio di provincialismo e subalternità muove rancori e progetti, mire e ambizioni di una sinistra ormai senza elettori e senza popolo. E non c'è cosa peggiore che affidarsi al giudizio degli stranieri

Perché l'Italia non ha bisogno di essere messa sotto tutela dai francesi

Quando troppo è troppo. Lo deve aver pensato anche il presidente Mattarella, di solito molto guardingo, dopo aver letto le sconcertanti dichiarazioni della ministra francese per gli Affari Europei Laurence Boone rilasciate al quotidiano “La Repubblica”. Con incredibile leggerezza la signora ha sparato a zero sull’Italia, da lei considerata dal 26 settembre scorso una sorta di sorvegliato speciale su cui è necessario "vigilare con fermezza per il rispetto dei diritti e delle libertà". Al pari di Ungheria e Polonia. Poco meno della Corea del Nord o del Nicaragua.

Approfittando dell’inaugurazione a Torino dell’anno accademico degli Istituti di formazione dell’Esercito, Mattarella ha ricordato stizzito che "l’Italia sa badare a sé stessa nel rispetto della Costituzione e dei valori dell’Unione Europea". Un monito chiaro e secco. Mario Draghi a sua volta ha preferito sdrammatizzare snobbando l’intemerata della Boone per ribadire con levità e ironia che in Europa "quando cambia un governo a Roma c’è curiosità non preoccupazione".

Di certo il commento di Giorgia Meloni è stato più netto e deciso. Chiedendo una smentita ufficiale a Parigi, la presidente di Fratelli d’Italia ha definito le parole della ministra di Macron "un’inaccettabile minaccia d’ingerenza esterna contro uno Stato sovrano, membro dell’Unione Europea. L’era dei governi a guida Pd che chiedono tutela all’estero è finita". Parole condivise pienamente dagli altri leader del centrodestra e da un coraggioso Carlo Calenda che ha invitato i francesi a "farsi i fatti loro".

Mentre da Praga Macron cercava di mettere una toppa allo scivolone — "Voglio esprimere tutta la mia amicizia e la mia piena fiducia nel presidente Mattarella e nelle conclusioni che trarrà dallo scrutinio" — e lo staff dell’incauta signora era costretto a definire “semplificato” il pensiero della Boone e assicurare che "il ministro non intende dare lezioni a nessuno", a sinistra regnava l’imbarazzo e il silenzio.

Non a caso. La tentazione dei nipotini della sinistra Dc e del defunto Pci di appoggiarsi all’estero, al papa straniero di turno per influenzare le cose italiane è una malattia antica e mai estirpata. Un’eredità che risale quanto meno alla guerra fredda, un tempo in cui i maggiori partiti politici italiani godettero abbondantemente dei denari e delle garanzie d’oltreconfine: con la Dc che, oltre ai favori del Vaticano, incassava i soldi dei sindacati americani e il Pci che prosperava con i denari di Mosca. Poi arrivò Tangentopoli e il crollo del sovietismo e l’orizzonte dei superstiti di falce e martello e scudo crociato, ricoverati per lo più nell’attuale Partito Democratico, divenne l’europeismo più zelante e fanatico.

Lo ricordava qualche tempo fa Federico Rampini, intelligenza libera e anticonformista, nel suo bel libro “La notte della sinistra”. La sua sentenza è netta: "No davvero non vedo un futuro per la sinistra italiana se si ostinerà a essere il partito dei mercati finanziari e dei governi stranieri, in nome di un europeismo beffato proprio da tedeschi e francesi. Una tentazione perdente ma "coerente con la tradizione esterofila delle élite italiane".

Ed è proprio questo inestricabile intreccio di provincialismo e subalternità che muove tutt’oggi rancori e progetti, mire e ambizioni

di una sinistra ormai senza elettori e senza popolo. Una sinistra sempre più “partito dello straniero” e sempre più estranea alla storia e al destino di questo acciaccato ma ancora vitale Patrio Stivale.

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