Enrico Colombatto è professore ordinario di Politica economica all'Università di Torino, un liberale doc che siede sulla cattedra che fu di Sergio Ricossa. È autore di Liberisti o socialisti? Tertium non datur (Giappichelli). Con lui continua il dibattito sulla necessità di restituire centralità al pensiero liberale, rilanciata dalla lettera di Silvio Berlusconi al Giornale.
Professor Colombatto, il liberalismo in Italia ha sempre avuto difficoltà a trovare una casa politica. Per quale motivo?
«Una visione autenticamente liberale non raccoglie voti. In una competizione in cui vince chi fa più spesa pubblica, chi promette meno tasse e meno spesa vince poco, parte zavorrato. Il problema è che tanti si tengono stretta un'etichetta pur promettendo spesa tanto quanto gli altri».
L'emergenza Covid ha provocato un allargamento del ruolo dello Stato.
«Nell'emergenza si trova più gente disposta a credere a qualunque frottola o illusione per uscire da quella situazione o alleviarne il peso. Cresce una domanda di soluzioni a costo zero e lo Stato le offre o meglio le promette perché è una fattispecie che non esiste».
Vede dei rischi in questa situazione?
«Sì, è potenzialmente catastrofica. Un lavaggio del cervello diffonde la convinzione che lo Stato possa risolvere qualsiasi problema, spendere sempre più e consentire a tanti di non lavorare. È la promessa di un debito a costo zero che non sarà pagato da nessuno o almeno non da questa generazione. Questo scoraggia la voglia di lavorare, indebolisce l'etica del lavoro e lo spirito imprenditoriale».
Qual è l'attualità oggi delle idee liberali?
«La visione liberale dice che nessun pasto è gratis e ti spiega senza infingimenti che ciò che pensi di acquisire a costo zero lo pagherai domani o lo pagheranno i tuoi figli. Purtroppo i benefici dell'indebitamento pubblico sono percepiti immediatamente, i costi o il rischio default come un problema futuro. Quelli che percepiscono la logica di questa impostazione spesso tendono ad andarsene via e portarsi via le loro competenze. Se lei fa un sondaggio tra i giovani studenti la percentuale di coloro che pensano di andare all'estero è altissima».
Cosa pensa del dibattito sulla libertà di non vaccinarsi?
«Io personalmente sono vaccinato perché credo che il vaccino sia fonte di benefici, ma questo non mi dà il diritto di obbligare gli altri. Mi consente però di dire: a casa mia non metti piede se non sei vaccinato. A quel punto spetta al non vaccinato decidere se vuole pagare il prezzo della sua scelta oppure vaccinarsi».
È vero che oggi gli intellettuali, i professori universitari, gli accademici sono meno attratti dalla politica di un tempo?
«Il meccanismo è duplice. Da una parte un liberale che è scettico nei confronti dello Stato difficilmente si mette al servizio dello Stato a meno che non gli sia dato il potere di ridurne il potere, ma ci vorrebbe la bacchetta magica. Dall'altra un leader politico difficilmente recluta un liberale che sa che gli chiederà di ridurre il peso della Pubblica amministrazione».
Il Recovery fund è un'occasione per cambiare il volto del nostro Paese. Dove interverrebbe se potesse?
«Proporrei la privatizzazione almeno parziale di sanità, pensioni e istruzione, cose che Draghi non ha la minima intenzione di fare. Non vedo nessun cambiamento strutturale alle viste, dato che leggo di promesse di assunzioni per migliaia di nuovi dipendenti pubblici. Al contrario abbiamo incamerato 5.000 euro di debito pubblico in più a testa, che non è uno scherzo».
Perché i mercati ci risparmiano?
«Sono persuasi che la Bce farà stampare tutta la moneta necessaria e individuano come debitore la Bce, non lo Stato italiano. Un investitore insomma può dormire sonni tranquilli, meno il risparmiatore che per avere un 2-3% di rendimento sui propri risparmi deve assumersi dei rischi».
Perché ancora oggi il liberalismo viene raccontato come l'ideologia dei produttori che vogliono difendere i loro privilegi?
«La narrazione associa il liberismo al capitalismo dei compari, dimenticando che quando ci sono privilegi c'è uno Stato che li assegna.
Ogni imprenditore viene remunerato in base a quello che produce per la società con benefici per lui e per la società stessa. Se lo Stato lo protegge non è più un imprenditore ma un privilegiato, ma queste sono chiaramente eccezioni».
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