Settant'anni fa, Luigi Einaudi pronunciava il suo discorso di accettazione della carica di presidente della Repubblica, alla quale pur da monarchico (e lo precisò) aveva giurato fedeltà un attimo prima. Ma ha ancora senso, oggi, ricordare Einaudi? Ha ancora senso ricordarne il pensiero?
Credo non vi sia (e non vi sia mai stato) un altro personaggio pubblico tanto elogiato a parole e tanto ignorato nei fatti. Lui stesso, d'altra parte, con l'ironia verso se stessi che è tipica del carattere dei grandi spiriti, intitolò com'è noto Prediche inutili certi suoi saggi. Era cosciente, insomma, che certe sue indicazioni politiche (specie di politica economica liberale, non interventista) non sarebbero state seguite, ma sentiva l'imperativo morale di esternarle. E oggi, gli anni trascorsi ci permettono di constatarne, purtroppo, la validità e nello stesso tempo l'inutilità.
Prendiamo, ad esempio, proprio il discorso di Einaudi da primo presidente della Repubblica. In quella occasione, dunque, Einaudi richiamò due principii affermati come fece presente dalla Costituzione: «Conservare alla struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana contro l'onnipotenza dello stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore eguaglianza possibile nei punti di partenza».
La maggiore eguaglianza possibile nei punti di partenza; non nei punti di arrivo: Einaudi delineò così, magistralmente, la differenza tra liberalismo e socialismo. E, nel contempo, Einaudi delineò la massima possibile se realizzata - rivoluzione sociale (vera, e non populista).
Ma Einaudi seppe anche tessere un insuperabile elogio del sistema liberale del confronto delle idee: «È (esso) discussione, è lotta anche viva, anche tenace fra opinioni diverse ed opposte; ed è, alla fine, vittoria di una opinione, chiaritasi dominante, sulle altre». «Nelle vostre discussioni, Signori del Parlamento aggiunse poi , è la vita, la vita medesima delle istituzioni che ci siamo liberamente date».
Aggiungendo altresì: «Se v'ha una ragione di rimpianto nel separarmi, per vostra volontà, da voi, è questa: di non potere più partecipare ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non potere più sentire la gioia, una delle più pure che cuore umano possa provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confermare a se stessi di avere in tutto od in parte, torto ed ad accedere, facendola propria, alla opinione di uomini più saggi di noi».A questo punto, il resoconto parlamentare reca: «Applausi vivissimi». Ma oggi, in questo Parlamento di parolacce, chi applaudirebbe mai al piacere di avere torto?
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