
Brucia. È una notte d'ottobre e le luci di Roma si spengono una dopo l'altra seguendo la traccia del fiume, da Sud a Nord, lì dove comincia la Magliana fino all'isola Tiberina. Le fiamme si vedono da lontano e illuminano il cielo di un rosso scuro che sa di sangue rappreso, come se fosse il sacrificio di un Dio, troppo antico per avere ancora qualcosa da dire e sgozzato come si fa con i maiali e poi lasciato a dissanguare. Ma come fa a bruciare un ponte di ferro? È una domanda che in tanti ripetono d'istinto, perché queste travi di metallo che disegnano un'architettura di fuoco stupiscono perfino i romani. Che succede? È uno spettacolo innaturale. Il ponte collega Ostiense e Portuense e lo chiamano «di ferro» perché quando lo hanno costruito segnava l'arrivo della modernità. Sta lì dai tempi di Pio IX, precisamente dal 1863, quando l'Italia aveva smesso da poco di essere solo un'espressione geografica, ma Roma era ancora papalina. Il nome ufficiale è ponte dell'Industria, che a Roma ha sempre l'eco della beffa, sotto ci sono le baracche e le sterpaglie e i rifiuti di chi da questa città eterna non si aspetta più nulla, perché Roma sa essere spietata con chi non conosce nessuno e ha smesso di stare in fila nella processione dei clientes. I segni dell'industria sono lo scheletro del Gazometro, un cilindro alto quasi novanta metri, una torre spogliata di cui restano solo le ossa di metallo. Era il sogno del sindaco Nathan, ma a finirlo fu Mussolini nel 1936 e il suo gas alimentava le luci della città. Era il più grande d'Europa e adesso lo raccontano come un esempio di archeologia industriale, come se fosse un piccolo Colosseo del Novecento, in una zona che tutti quelli che arrivano per governare indicano come da riqualificare. Ci stanno pensando le fiamme. È così in fondo che l'Urbe parla. Brucia, brucia Roma. Brucia così forse qualcuno se ne accorge. Brucia come ai tempi di Nerone. Brucia come si fa con gli eretici, nel segno di Giordano Bruno, perché almeno lui aveva ragione. Qui tutto torna e tutto si perde e solo il fuoco lascia il segno. Brucia per purificare il marcio e la disillusione. Brucia per dare agli aruspici qualcosa da dire, per oscurare i raggi delle stelle o per nutriti della tua anima selvaggia, risvegliata dai lupi, dai cinghiali, dalle zoccole e dai gabbiani, da questa metropoli immobile e assediata, che non si sa dove comincia e dove si chiude, dove finisci per conoscere soltanto il tuo quartiere, perché spostarsi costa un tempo indefinito, ma troppo spesso superiore a un viaggio in treno per Milano. Solo che i romani a Milano non ci vogliono andare. Li spaventa il cielo, quello che quando guardi in alto non c'è. È un'ombra di grigio.
A Roma il cielo è un'illuminazione, solo che non si specchia nel fiume. È il Tevere il dio sgozzato, il maiale che arde, sanguina e urla. È il padre rinnegato. È il mistero di questa Roma, capitale irrisolta e postmoderna. Quando è diventata rabbiosa e idrofoba? Ha un mare e non lo sa. Ha un fiume e non lo frequenta. Il Tevere è una zona franca. Non è vivibile. Non è la Senna. Non è il Tamigi. Non è certo il Danubio. Non è un centro di aggregazione, di cultura, di divertimento. Non ci si va per mangiare o per ammirare artisti improvvisati. Non c'è una rive gauche. Attraversa la città, come se fosse un impiccio, un confine ogni volta da superare, un'idea da asfaltare. L'estate sì, si risveglia come una parentesi di vita sospesa tra Trastevere e il Ghetto l'isola Tiberina, con l'ambizione ma realmente realizzata di farne una cittadella delle arti e delle storie, ma per il resto è terra di nessuno, dove al massimo ti avventuri per correre in solitudine nel tratto che va da Prati a Ponte Milvio. Il resto è un solco clandestino, una cicatrice, la terra dove gli invisibili trovano rifugio. L'approdo è lì, proprio sotto il ponte di ferro, dove il centro guarda la periferia, dove si apre la strada che porta a Ostia, il mare rifiutato e abbandonato, lì dove nascono e muoiono i sogni della nuova suburra, romanzo criminale di cappa e spada.
Non arriva più il profumo del mare. La realtà è che Roma, come scrive Christian Raimo, non è eterna. Roma puzza. Non è una metafora. Roma puzza davvero. È sfatta e c'è la monnezza. È l'odore che senti appena arrivi e quello che ti resta quando vai via.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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