Picchiare i poliziotti si può in nome dell'"antifascismo"

A Torino gli scontri con i centri sociali nel Giorno del ricordo. Da Ovadia a Zerocalcare, ecco chi li difende

Picchiare i poliziotti si può in nome dell'"antifascismo"

Le botte. Il sangue. Le devastazioni. Ma un bollettino di guerra può diventare una medaglia al collo se le vittime sono fascisti o presunti tali. Come fossimo ancora sulla Linea Gotica nell'autunno del '44 e non nell'Italia contemporanea. Tre quarti di secolo dopo la Liberazione, c'è ancora un pezzo del Paese che vive dentro una bolla manichea: di qua loro, i buoni, di là gli altri, dannati per sempre. E con loro gli uomini in divisa, complici, anzi servi del nemico, sempre nel mirino. C'è un confine sottile, tracciato soggettivamente, che mette al riparo da critiche, revisioni storiche, ripensamenti. Di più, una frontiera che abolisce i reati commessi contro la parte antropologicamente colpevole. «I ragazzi oggi in carcere o sottoposti a misure cautelari avevano cacciato i fascisti, la loro è una situazione surreale», afferma fra l'indignato e lo sbalordito il fumettista Zerocalcare, uno dei guru di questa sinistra, in punta di piedi sul piedistallo dei propri pregiudizi. E lo scrittore Moni Ovadia aggiunge una sola parola: «Liberateli».

I «prigionieri» sono giovani anarchici e dei centri sociali che il 13 febbraio scorso, per il Giorno del ricordo, avevano sfasciato l'aula del Fuan all'università di Torino, avevano danneggiato un mezzo della forze dell'ordine, avevano ferito otto poliziotti e due guardie giurate, a protezione della vita in ateneo. La giustificazione? I fascisti del Fuan avevano organizzato un volantinaggio e contestato un convegno sul tema incandescente e, ahimè, ancora divisivo delle foibe cui partecipava appunto Moni Ovadia.

Sacrilegio. Perché chi non ha il diritto di parola, non può parlare, va zittito. Con le urla. Con le pietre. Con i cassonetti, lanciati quel giorno come i birilli, e con i bastoni. È la cronaca che scopiazza la storia, anche quella settaria e sanguinaria. Scene che in verità abbiamo visto infinite volte nei cinegiornali e in tv e che nel passato appartenevano a tutta la sinistra, ma almeno c'era l'alibi del reducismo, della mobilitazione partigiana per vigilare anche sulla pace. L'Italia è cresciuta storta e strabica, sul dogma solitario dell'antifascismo spacciato come moneta della libertà.

Ma oggi certi equivoci non possono più essere tollerati o dimenticati in un fantomatico clima da Cln. I nasi rotti, le teste spaccate, i banchi distrutti non sono di serie B solo perché c'è di mezzo l'estrema destra. O peggio, le forze dell'ordine, assalite con barbara baldanza infinite volte dai No Tav, contigui ai ribelli torinesi del 13 febbraio.

A luglio la magistratura ha messo nel mirino 19 attivisti, ipotizzando una sfilza di reati: rapina, danneggiamento, violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale. Domani ci sarà il Tribunale del riesame. Si vedrà. Nessuna presunzione di colpevolezza, ci mancherebbe. Ma nemmeno una pacca sulle spalle a sparute minoranze che giocano con la fionda nella convinzione di avere il monopolio della verità.

Gli appelli, i manifesti, le lezioni fanno parte del sacrosanto bagaglio della nostra società, ma anche quelli, attenzione, mostrano le rughe impietose del tempo. Siamo ancora intossicati dai proclami, quelli sì surreali, di certa gauche, soprattutto francese, in difesa di Cesare Battisti che non era un feroce terrorista perché l'Italia era il Paese delle torture, delle leggi repressive e dello Stato canaglia.

È finita con Battisti che, dopo una latitanza lunga una vita, ha finalmente confessato i crimini commessi negli anni Settanta, figli di un'ideologia vigliacca ma popolare.

Certo, quelli erano altri tempi. Più cupi e feroci. Ma certe dinamiche si ripetono. Meglio fermarle subito. Prima che i ritornelli a senso unico degli uni diventino un coro.

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