Politici, tecnici, numeri: ecco il governo che verrà

Salvini vuole il Viminale, Meloni resiste. E prima serve un accordo sui vertici di Camera e Senato

Politici, tecnici, numeri: ecco il governo che verrà

Se persino in campagna elettorale una dice bianco e l'altro dice nero, è facile pensare che dopo il voto, tra gli alleati-rivali Meloni e Salvini voleranno scintille.
I sondaggi - sia pur secretati per i cittadini - continuano a dare in netto vantaggio il centrodestra. Ma il difficile, con ogni probabilità, verrà dopo: mettere in piedi un governo di coalizione, scegliere i ministri, varare a passo di carica la legge finanziaria, affrontare i mercati che devono comprare i titoli di Stato italiani, senza più la garanzia assicurata da Mario Draghi. La seduta di insediamento del Parlamento sarà il 13 ottobre, e per quella data la aspirante premier Meloni vorrebbe avere già l'accordo sui presidenti delle Camere, per far partire subito le consultazioni. Ma non sarà facile trovarlo: si aprirà subito il braccio di ferro sul controllo del Senato, postazione chiave per gli equilibri futuri che la leader Fdi vuole per sé (si parla del veterano Ignazio La Russa), dando in cambio la Camera alla Lega (si fa il nome di Vania Gava). Tanto più se, come temono alcuni nel centrodestra, la campagna da Comandante Lauro di Conte nel profondo Sud rimettesse in discussione alcuni collegi chiave della destra, rendendo più risicato il margine di maggioranza: sotto i 120 senatori, ogni voto a Palazzo Madama potrebbe diventare una via crucis. E in Fdi già paventano il possibile asse Salvini-5Stelle su temi chiave che uniscono i gialloverdi: dal filo-putinismo e il «no» agli impegni internazionali pro-Ucraina all'assistenzialismo a colpi di debito pubblico. Quando denuncia il pericolo di «nuovi inciuci», Giorgia Meloni pensa anche a questo scenario.
Poi la scelta dei ministri: Salvini dice «basta tecnici», sapendo che l'alleata - che non ha una classe dirigente esperta di governo - cerca «eccellenze» per i posti chiave, come l'Economia (ma il Bce Fabio Panetta si è già sfilato: «Punta a Bankitalia», spiegano da Fdi). Il capo leghista vuole il Viminale, Meloni resiste: lo stop arrivato dagli Usa ai filo-russi è stato un segnale chiaro. In cambio, assicura che non ci saranno ministri del governo Draghi, che può essere letto come un segnale di appeasement sull'esclusione di Giancarlo Giorgetti, rivale interno di Salvini. Ma anche come uno smarcamento da Draghi: niente bis per Franco e Cingolani, facciamo da soli. Resta il niet a Tremonti: «Perderemmo subito credibilità sui mercati e nella Ue», dice un dirigente di centrodestra. Ma il rebus di chi mettere nelle caselle fondamentali (Esteri, Interni, Economia e Difesa) è ancora tutto da sciogliere.
Intanto la leader di Fdi e il capo della Lega continuano a distanza. Lei, che si vede già a Palazzo Chigi e sa quanto contino per il paese il sostegno della Ue e le alleanze internazionali, si è affrettata a chiudere l'«incidente» Von der Leyen: «Non ce l'aveva con l'Italia». Lui invece attacca a testa bassa: «Vergognosa e antidemocratica». Salvini chiede (in sintonia con Conte) scostamenti di bilancio monstre per le bollette, Meloni frena: «Non si può risolvere il problema dell'energia semplicemente continuando a mettere soldi dello Stato, perché non ne usciamo mai. La battaglia si vince con la Ue».

Salvini contrattacca sulle riforme: Meloni dice che vanno fatte comunque, anche senza l'opposizione? Lui la bacchetta: «Le riforme a colpi di maggioranza non vanno lontano». Un controcanto costante, che testimonia di quanto sia dura la battaglia per i voti all'interno del bacino

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