Periferia di Islamabad. Quando i poliziotti pachistani hanno bussato alla sua porta, Farah ha capito che erano venuti per liberarla. La madre e la sorella hanno tentato invano di negare davanti agli agenti, giunti lì a colpo sicuro: «Questa non è una prigione, è una casa». Peccato che quella casa si fosse trasformata proprio in una prigione. Almeno per lei: Farah, 19 anni. Solo ieri uscita dall'incubo, nel quale l'avevano trascinata i più insospettabili dei nemici: i suoi genitori.
I «gendarmi», coi baffoni neri sotto il naso e il moschetto tra le braccia, l'hanno trovata ancora sotto choc: «La colpa è di mio padre. È lui che mi ha costretta ad abortire. Non lo odio. Ma va punito». E così Farah è «evasa» dalla stanza, diventata la sua cella. Pochi giorni prima, un «viaggio» che non dimenticherà mai. Destinazione: lo «studio medico» dove c'erano i ferri per stroncare la sua gravidanza. Una scelta niente affatto volontaria, considerato che quel bimbo Farah voleva tenerlo. Era il frutto di un amore con un ragazzo suo connazionale (ma cristiano) conosciuto a Verona, città in cui la 19enne pachistana abitava da anni. Ma quel nipote «impuro» i genitori di Farah non volevano accettarlo, tanto da decidere di ucciderlo nel grembo materno. Farah era sparita improvvisamente da Verona all'inizio dell'anno: i genitori, con l'inganno, erano riusciti a farla tornare in patria dicendole che «non poteva mancare al matrimonio del fratello». Una bugia atroce. Ma quando Farah lo ha capito era troppo tardi. Il capofamiglia aveva predisposto tutto per «risolvere il problema». Quando la giovane ha compreso ciò che stava accadendo, ha chattato con le sue amiche: «Mi hanno legata al letto, stanno per sedarmi...vi prego, salvatemi». Poi giorni di silenzio. Infine un altro sms disperato: «Mi tengono segregata a casa, mi hanno portato via il passaporto. Aiutatemi». Difficile farlo dall'Italia, a migliaia di chilometri di distanza. Ma le amiche avvertono la scuola frequentata da Farah: la stessa scuola che, per facilitare il parto della studentessa, aveva anche pensato di anticipare per la ragazza gli esami di maturità. Dopo la segnalazione da parte delle compagne di classe, i prof di Farah allertano la Questura. Si muove la Farnesina. La ragazza è però una cittadina pachistana, senza la collaborazione delle «autortà locali» si può far poco o nulla. Ma questa volta (anche forse per effetto dell'eco mediatico provocato dal recente omicidio di Sana, la 24enne italo-pachistana uccisa in patria dal padre perché si rifiutava di accettare un matrimonio combinato) la polizia pachistana si dà da fare. E bussa alla porta della famiglia di Farah. Il padre non c'è. Dopo l'aborto imposto alla figlia è tornato in Italia. La nostra polizia dovrebbe rintracciarlo al più presto e chiedergli conto dell'orrore commesso. E anche di quei «maltrattamenti in famiglia» per i quali in passato Farah si era rivolta ai servizi sociali del Comune di Verone ottenendo ospitalità in una struttura protetta. Il 9 gennaio, però, la 19enne saluta tutti col sorriso sulle labbra: «Vado in Pakistan per il matrimonio di mio fratello». Era un trappola.
Che è costata la vita a suo figlio e, a lei, un trauma che la segnerà per sempre. Solo l'amore del suo fidanzato potrebbe fare il miracolo. Ma lui è preoccupatissimo: «In Pakistan una ragazza considerata disonorata può essere uccisa».
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