Il post Letta è già iniziato. E il Pd diventa X Factor

Ressa di candidati alla segreteria e lite sui 5 Stelle. Orfini: "Surreale il dibattito sulle alleanze ora"

Il post Letta è già iniziato. E il Pd diventa X Factor

È bastato che Enrico Letta annunciasse che si presenterà dimissionario al congresso, che si terrà in data imprecisata tra l'inverno e la primavera, per aprire le dighe: in 24 ore, praticamente tutti i dirigenti del Pd si sono candidati o sono stati candidati alla segreteria. E anche qualcuno non del Pd.

«Mi candido», annuncia Paola De Micheli, ex ministro di fede lettiana. «Sono disponibile», dice il sindaco di Pesaro Matteo Ricci. Anche i suoi colleghi di Bari (De Caro) e di Firenze (Nardella) si sentono in partita. C'è il governatore dell'Emilia Romagna che scalda i motori, e che potrebbe rappresentare un'opzione di pragmatismo riformista e di governo che guarda al Nord produttivo. Cui si potrebbe contrapporre la sua vice Elly Schlein, neo-eletta in Parlamento come indipendente, che è tentata (e anche spinta, dallo stesso Letta e dall'ex premier e sponsor delle Sardine Romano Prodi) di sfidarlo come candidatura neo-ulivista e movimentista, tutta incentrata sui nuovi diritti con una spruzzata di femminismo e di filo-grillismo. «Ma il congresso non è X-Factor», la liquida Anna Ascani. C'è il vicesegretario Peppe Provenzano che vuol rilanciare la sinistra post-Pci. C'è anche chi vorrebbe dare il Pd direttamente e «graduidamende» (come usa dire lui) in dono a Giuseppe Conte, immaginando confusamente che il capo 5S possa diventare una sorta di Melenchon alle cime di rapa in grado di guidare il fronte del progresso verso il sol dell'avvenire e dei bonus. Perché, spiega lo stratega Goffredo Bettini, tornato in pista dopo la débâcle elettorale, «il Pd è il partito dei ceti medi urbani, ma Conte è più penetrante nel popolo». Ma anche il chiassoso governatore di Puglia Michele Emiliano (reduce da una batosta clamorosa in quella che aveva sfortunatamente ribattezzato «Stalingrado d'Italia») si scioglie al sole contiano: «La sua è la leadership più forte del centrosinistra», dice. Pensa le altre.

«Abbiamo più candidati segretari che idee», chiosa sconsolato un veterano dem del Senato. Le idee in effetti non sono molte ma tutte piuttosto confuse. E girano in gran parte attorno alla questione alleanze: tornare all'abbraccio coi grillini, e stavolta da junior partner che si fa dettare la linea dai populisti, o guardare al riformismo calendian-renziano? Mentre i dem si dilaniano e si arrovellano, Conte e Renzi stanno a guardare, tipo Scilla e Cariddi, in attesa che il Pd (navigante un po' meno abile di Ulisse) decida la rotta: «Io sto fermo», dice in queste ore Renzi a dem che lo consultano, «il Pd è destinato a implodere, e in molti arriveranno dalle nostre parti». Anche Conte è convinto che i prossimi sei mesi di bagarre porteranno a una resa senza condizioni di parte della «Ditta» dem alla sua penetrante leadership. Per questo, denuncia ad esempio Matteo Orfini, «il dibattito sulle alleanze è surreale: si vota tra 5 anni. Abbiamo sprecato gli ultimi tre così: la nostra unica proposta politica è stata allearci, a prescindere e senza idee».

Le idee latitano. I capicorrente storici cercano di capire su chi scommettere per non essere travolti e evitare che si realizzi la profezia di Paolo Gentiloni, che da Bruxelles diceva, alla vigilia del voto: «Dal 26 settembre questo gruppo dirigente non ci sarà più».

La sinistra cerca di accelerare l'ingresso nel Pd degli scissionisti di Bersani e D'Alema per avere più massa di manovra filo-M5s. Intanto, l'unica cosa su cui pare ci sia accordo è di chiedere a Letta di prorogare le capogruppo Serracchiani e Malpezzi fino al congresso.

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