La memoria delle forze politiche italiane sulla Storia è piuttosto ondivaga. Partiti che non si sono mai ricordati della Kristallnacht (la più nota delle molte aggressioni dei nazisti agli ebrei tedeschi) se ne ricordano di colpo se il ministro Giuseppe Valditara, scrive a proposito di quell'enorme svolta libertaria che è stata la caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989. Se ne ricordano invocando una sorta di par condicio per cui se si evoca la fine (parziale) di una dittatura si dovrebbe, per forza, evocare anche un evento relativo alla dittatura ideologicamente opposta (anche se sappiamo che nazismo e comunismo non ebbero difficoltà ad essere anche alleati). Abbiamo fatto una chiacchierata sul tema con il professor Roberto Chiarini, storico contemporaneista e Presidente del Centro studi e documentazione sul periodo storico della Repubblica sociale italiana.
Professor Chiarini ma come mai solo ora ci si accorge della Notte dei Cristalli? Esiste un calendario della memoria storica che cambia nel tempo?
«Certamente, l'Italia liberale ha avuto le sue ricorrenze, l'Italia fascista le sue, celebrando a esempio la Marcia su Roma, e poi, a seguire, la Repubblica ha creato le sue come il 25 aprile. Se dobbiamo essere onesti la Notte dei cristalli non ha mai avuto una particolare attenzione in Italia. E del resto, pur essendo un evento tragico, perché porre l'accento più su quella e non sull'incendio del Reichstag, o sul Putsch di Monaco? Mi sembra che la polemica sia pretestuosa e nasca dal fatto che le ambiguità sul crollo del Muro di Berlino siano ancora forti...».
Ecco, quali sono le date o i fatti con cui la sinistra italiana, o più precisamente gli eredi del Pci, non hanno ancora fatto i conti?
«Se guardiamo alla Caduta del muro, proprio allora il partito comunista ha mandato al macero l'ideologia comunista, ma non ha affatto portato avanti un riesame della Storia alla luce di quel cambiamento. Il comunismo in Italia ha dei meriti nell'avvento della democrazia ma si è guardato bene dal prendere in esame i suoi errori o la sua adesione ad un'ideologia completamente sbagliata che invocava continuamente una crisi del capitalismo mai avvenuta».
Qualche esempio?
«L'anno scorso si celebrava la nascita del Partito comunista italiano. C'è stato qualcuno che ha rivalutato le posizioni di Turati che criticò la fuga in avanti verso il bolscevismo. Ma non c'è stata un'analisi seria dell'errore che venne commesso allora rinnegando il riformismo e contribuendo a spingere l'Italia verso l'estremismo che favorì l'ascesa del partito fascista e di Mussolini. E tra le responsabilità di Togliatti ci fu anche quella di rompere poi l'unità delle forze antifasciste, almeno sino a quando daStalin non arrivò l'ordine di fare fronte comune. Tutte questioni finite nel dimenticatoio».
Così anche per il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale?
«Continuò come prima l'abbaglio del modello sovietico, basta pensare a tutte le false accuse a Giuseppe Saragat di essere un traditore della classe operaia al soldo dei sindacati americani per la sua scelta convintamente atlantista. Una scelta ovviamente saggia e doverosa in quell'epoca. Togliatti non fece nulla per aiutare il centrosinistra di allora, l'unico che abbia fatto vere riforme sociali nel Paese, anzi lo boicottò. E ancora più drammatico fu l'incrocio con il socialismo di Craxi. A cui fu negato anche dopo la caduta del Muro il merito di aver sepolto per primo l'armamentario ideologico marxista.Craxi arrivò a teorizzare in Italia quello che i socialisti tedeschi avevano già messo in pratica dagli anni Cinquanta. Il Pci ci è arrivato solo, e costretto, dopo il 1989 e anche così anche nei cambi di nome del partito si sono guardati bene dall'usare la parola socialismo, e questo non è un caso, è stato un modo di non fare i conti con la storia».
E poi ci sono le questioni relative alle scelte di campo internazionali. Come il caso dell'Ungheria e poi dell'occupazione sovietica della Cecoslovacchia...
«L'Ungheria nel 1956 è un caso emblematico. Persino Napolitano arrivò a giustificare l'invasione e tutti gli intellettuali che si ribellarono a questo appiattimento su Mosca vennero cacciati dal partito.
Nel caso di Praga, nel 1968, Berlinguer fu più coraggioso, ma nemmeno in quel caso si arrivò a liberarsi dall'idea completamente anacronistica del crollo del capitalismo e a fare i conti col passato. E il problema è ancora lì in buona parte».
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