Pre-annunci di morte e funerali da vivi. Il rischio è di banalizzare l'ultimo tabù

Da Murgia a Eriksson, si infrange il riserbo borghese. "Non ho paura" è il grido di chi forse paura ne ha

Pre-annunci di morte e funerali da vivi. Il rischio è di banalizzare l'ultimo tabù
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Eccone un altro che celebra il suo funerale da vivo e ci mostra la finitezza della carne, offrendola ai morti-viventi dei social col rischio di banalizzarla (la morte) esattamente come stiamo facendo noi ora: che scriviamo, commentiamo, contiamo i click e chissà, magari potremmo paragonarli agli auto-annunci mortuari di Michela Murgia, o del collega Franco di Mare, dell'allenatore Sven Goran Eriksson, dell'autrice di «I love shopping» Sophie Kinsella, tanti altri, sempre di più col rischio che poi, se non capìtolano in fretta (vedi la principessa Catherine Middleton, che in marzo ha annunciato un tumore ed è ancora viva, che sfrontatezza) e insomma, se poi non si sbrigano finisce che li banalizziamo ancora di più, anche perché al crepuscolo sembra che dicano sempre le stesse cose: anche se non è vero, ciascuno è unico, ciascuno ha il suo stile, però insomma dicono tutti che non hanno paura di morire (e non ci crede nessuno) e che non sono pentiti di niente, che rifarebbero tutto, che la vita è bella, sì, ma anche basta, va bene così, sono un po' stanchini.

Ma la morte è un problema dei vivi, ed eccoci allora a registrare la definitiva frattura del riserbo borghese per la «scomparsa» (la grande rimozione della cultura occidentale eccetera) a vantaggio appunto dei preannunci di morte social, seguirà dibattito, del tipo: è una cosa utile? A chi? Rompe un tabù o lo banalizza? E' meglio morire da soli o da soli davanti a un computer?

Risposta: ma che ne sappiamo noi, vivi a tempo determinato, noi che immaginiamo un qualcosa che sarà sempre, e comunque, qualcosa di diverso da ogni immaginario. Oliviero Toscani ha una malattia incurabile che si chiama amiloidosi (o forse si chiama vita) ed è un fotografo che adesso, dice, non ha più voglia di fotografare e speriamo neanche più di leggere, altrimenti gli toccherà scorrere i commenti beoti di chi scrive «mi dispiace» ma non sa neppure bene chi sia stato, le «polemiche» di chi dice che suo cognato è morto senza tante storie, le lagnanze di chi dice che Toscani era questo ed era quello, che ha detto che i no vax erano trogloditi (autentico, ieri) e che (autentico, ieri) è «solo un sadico che vuole mostrare a chi è vivo la propria somiglianza con chi è morto».

Internet e i social non hanno sdoganato la morte: forse hanno solo piazzato una lente d'ingrandimento sulle viscere e sullo squallore di chi resta vivo nella propria esistenza non illustre. Qualunquismo? Forse. Allora mettiamola sul sociologico, ricordiamo che l'Italia peraltro ha una tradizione particolare perché è l'unico paese che applaude ai funerali (cominciò con Anna Magnani nel 1973) e così fu per la salma di Berlinguer, Moro, quelle di Nassirya, Falcone e Borsellino, persino Giovanni Paolo II. Forse l'applauso, come adesso il commento social, è una forma di tensione non retta, una paura esorcizzata, l'umana incapacità di rispettare un rituale cerimonioso come la morte abbiamo sempre immaginata. Tutti che citano a livella di Totò, che mette tutti sullo stesso piano, ma è un piano che non ci piace, noi siamo diversi: alcuni si illudono di essere personaggi «pubblici» come primo passo verso la Storia e l'immortalità: così diventa pubblico anche l'annuncio di morte, qualcosa di grave che rischia di diventare non serio.

È incredibile che internet ci metta di fronte, come mai prima, a due dilemmi così tra loro opposti: essere dimenticati da un web che ricorda tutto per sempre (il diritto all'oblio) oppure,

nello stesso modo, essere ricordati per ciò che ci ha spinto a scrivere, costruire, uccidere, all'occorrenza fotografare per Benetton. Essere ricordati o essere dimenticati. Un problema che hanno solo i presunti homo sapiens.

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