Roma - Tanti ne arrestano. Pochi ne condannano. Molti ne scarcerano. Probabilmente non è un caso che Anis Amri fosse partito dall'Italia per la sua missione di morte in Germania e che in Italia fosse tornato dopo la mattanza di Berlino: chi cerca l'impunità spesso la trova tra le Alpi e il mar di Sicilia. Lo dicono i numeri. Dodici mesi fa, nel corso della tradizionale conferenza stampa di fine anno, facendo riferimento alle operazioni portate a compimento durante il 2015, l'allora ministro dell'interno Angelino Alfano aveva parlato di 259 arresti per fatti legati al terrorismo islamista. Ma incrociando le statistiche del Viminale con quelle della Direzione nazionale antiterrorismo s'è appurato che in realtà solo 23 persone erano finite dietro le sbarre con l'accusa specifica di associazione con finalità terroristiche o di eversione dell'ordine democratico. Tutte le altre in galera s'erano ritrovate per reati diversi dall'immigrazione clandestina al furto alla rapina ma col marchio di potenziali jihadisti per le loro frequentazioni. A conferma del sacro senso dell'ospitalità italica, tuttavia, pure per il gruppo dei 23 le cose non sono andate male: in 5 sono stati scarcerati nel giro di qualche giorno. Altri sono stati assolti. Come il marocchino Jalal El Hahaoui: nel luglio del 2015 lo avevano fermato a Ponsacco, alle porte di Pisa, contestandogli l'apertura di falsi profili facebook pro-Jihad, post inneggianti alla rivolta contro gli infedeli d'occidente e frequentazioni pericolose. Nel settembre del 2016 la Corte d'Assise lo ha scagionato. Con buona pace proprio di Angelino Alfano, che nelle ore del blitz cinguettava allegro su twitter: «Un altro punto per squadra Stato, un'altra efficace applicazione di antiterrorismo». Identico il destino di 8 dei 17 presunti combattenti islamisti indiziati di aver complottato a Merano per il rovesciamento del Kurdistan iracheno insieme al mullah Krekar, lui pure di recente rilasciato: chiusi in cella nel dicembre del 2015, prosciolti da ogni accusa 5 mesi più tardi. Stessa sorte, anche se tempi più lunghi, per i 5 tra tunisini e palestinesi che in prigione erano stati sbattuti nell'aprile del 2013, sospettati di aver costituito una cellula terroristica ad Andria: la scorsa estate la Cassazione li ha riconosciuti innocenti. Al netto di eventuali lacune investigative, il problema vero sembra risiedere nelle norme: diversamente che altrove, contatti episodici tra ipotetici jihadisti, scambi di documenti e impressioni via internet o la generica adesione al Jihad non sono ritenuti sufficienti dai giudici né a giustificare misure cautelari né, tantomeno, a fondare sentenze di condanna.
Di sicuro, certifica il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, nel corso del 2015 dalle carceri italiane di jihadisti o presunti tali ne sono usciti 19: 3 per aver espiato la pena, 5 per passare ai domiciliari, il resto per revoca della misura (cancellata dal Riesame) o decorrenza dei termini di custodia.È l'Italia: tana libera tutti.
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