Messa come l'ha messa Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, nella seconda conferenza stampa indetta dopo la presa di Kabul, sembra quasi una carezza agli afghani che hanno voglia di fuggire dal Paese: «Abbiamo bisogno del vostro talento, non partite». Invito cortesemente esteso anche ai Paesi stranieri: «Non incoraggiateli a lasciare il Paese».
Ma dietro le parole al miele si sono intenzioni di piombo: mandare via gli stranieri, chiudere il Paese e imprigionare tutti gettando via la chiave. D'ora in poi - è notizia di ieri - l'aeroporto di Kabul è off-limits per gli autoctoni «per impedire alle folle di radunarsi lì ed evitare problemi di sicurezza». Quindi la contabilità dei salvati rischia di fermarsi alle decine di migliaia di locali che sono riusciti a scappare salendo sui voli americani, tedeschi, britannici, italiani. Gli altri saranno sommersi. Una linea temporale che divide il destino di chi ha un futuro davanti e di chi davanti ha un baratro.
Anche gli stranieri, del resto, devono affrettarsi. Le parole di Mujiahid chiudono all'ipotesi di qualsiasi proroga alla deadline del 31 agosto e fanno partire il conto alla rovescia per le evacuazioni: «Gli americani hanno l'opportunità e le risorse per portare fuori tutte le persone che appartengono a loro». Qualsiasi sforamento sarebbe una «violazione», parola alla quale, c'è da giurarci, i talebani danno un significato piuttosto serio. Ma anche se gli Usa sono riusciti a portar via lunedì altre 12.700 persone (il totale sale a 58.700) e anche se Washington conferma di voler rispettare l'ultimatum, altri governi sembrano sfiduciati. Il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace: «Non tutti riusciranno a lasciare il Paese. Stiamo assegnando priorità alla gente in modo crudele». E lo stesso pensano i colleghi di Berlino, Madrid e l'Aja, mentre Parigi sembra fiduciosa di farcela.
Insomma, i tempi li dettano i talebani. I quali, secondo l'alto commissario per i diritti umani dell'Onu Michelle Bachelet, starebbero compiendo «esecuzioni sommarie» di civili e uomini delle forze di sicurezza che avevano deposto le armi. La Bachelet invoca «un'azione coraggiosa e vigorosa» per monitorare la situazione dei diritti umani in Afghanistan, ma è evidente che si tratti di un tema del quale i talebani si fanno beffe. Anche se poi, nella conferenza di Mujahid, ci sono parole rassicuranti: promesse di «amnistia» e di «pace nel Paese», rassicurazioni ai giornalisti («le organizzazioni dei media sono al sicuro») e ai diplomatici («possono continuare il loro lavoro»), perfino alle donne («le nostre forze di sicurezza non sono addestrate nell'affrontare la donna, nel parlarci: quindi ora dobbiamo fermarle finché non ci sarà una piena sicurezza. Quando ci sarà un sistema appropriato le donne potranno tornare al lavoro ma al momento devono stare a casa»), ai partigiani dell'unica provincia ribelle («vogliamo mettere fine alla guerra e dialogare col Panjshir, dove attualmente c'è un problema»), agli afghani tutti («tornate alle vostre case, alle vostre vite. Non c'è pericolo»).
I talebani annunciano la nomina dei ministri delle Finanze (Gul Agha), degli Interni (Sadr Ibrahim), dell'Intelligence (Najibullah) ma non confermano l'incontro «segreto» tra il capo dell'ufficio politico Abdul Ghani Baradar e il direttore della Cia William Burns, rivelato dal Washington Post, che - se avvenuto - sarebbe il contatto a più alto livello tra Usa e talebani.
Anche se un altro portavoce degli «studenti coranici», Suhail Shaheen, sferza gli americani: «Gli Stati Uniti possono partecipare alla ricostruzione dell'Afghanistan dopo essere stati coinvolti nella sua distruzione». E comunque, qualsiasi sanzione della comunità internazionale «andrebbero contro la popolazione afghana». Piuttosto «servono aiuti». I talebani vogliono fare all in. E il bello è che c'è il rischio che ci riescano.
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