L'attentato vandalico contro la statua di Montanelli a Milano continua a stare al centro del dibattito politico. Perché la figura del fondatore del Giornale resta contesa e, secondo alcuni (una minoranza), controversa. Maurizio Gasparri (Forza Italia) non fa parte di questa minoranza e dall'alto della sua lunga esperienza prima come giornalista al Secolo d'Italia poi come parlamentare e ministro, non ha dubbi su dove collocare i vandali di oggi: «Di sicuro dalla parte del torto».
Si ricorda del giorno dell'attentato nel 1977?
«Certo che mi ricordo bene. Il giorno prima era stato gambizzato un altro bravo giornalista, mio amico, Vittorio Bruno, all'epoca vicedirettore del Secolo XIX».
Cosa la colpì di più: il gesto del gruppo terroristico o le reazioni dell'opinione pubblica?
«Come a molti non mi sfuggì la reazione dei principali giornali (Stampa e Corriere della Sera, ndr). Riuscirono nell'impresa di ammazzare la notizia visto che il nome di Montanelli si legge soltanto in un occhiello. Proprio con la scusa che il giorno prima era stato colpito Bruno, il direttore del Corriere, Piero Ottone, sfruttò la scusa di parlare al plurale per evitare di fare di Montanelli l'oggetto del titolo».
Non potrebbe essere stata semplice sciatteria?
«Non credo. Il clima politico in quegli anni era molto teso. E certe contiguità tra il mondo extraparlamentare e alcune sacche particolarmente sindacalizzate di via Solferino sono state ben raccontate e spiegate da Michele Brambilla nel libro L'eskimo in redazione (prima edizione Ares 1991, ndr). D'altronde anche l'idea di eliminare Walter Tobagi, tre anni dopo, matura in quel clima di odio e di connivenza».
Quindi gli imbrattatori di oggi sarebbero diretti discendenti di quanti all'epoca non volevano urlare solidarietà a Montanelli?
«Secondo me sì. Anzi. Mi spingo oltre e azzardo una definizione più audace: il primo imbrattatore della memoria del fondatore del Giornale è stato Ottone. Per mia fortuna ho avuto l'occasione di dirglielo in faccia. Un'opportunità più unica che rara».
Quando è successo?
«Nel 2003 l'Ordine dei giornalisti festeggiava i suoi primi quarant'anni di vita. L'occasione fu celebrata con un convegno nella prestigiosa Sala della Lupa di Montecitorio. Cui parteciparono tutti. C'era il gotha di questa professione: dagli editori Romiti e De Benedetti ai direttori di tutti i principali giornali. Ero stato invitato in qualità di ministro delle Comunicazioni del governo Berlusconi. E c'era pure Ottone!»
Che all'epoca non era più al Corriere da tempo.
«Sì è vero. Per me, tuttavia, quella fu una grande occasione. Non potevo non togliermi quel fastidioso sassolino dalla scarpa. Lasciai perdere il discorso che mi ero preparato e con garbo e delicatezza istituzionale, senza fare nomi di giornalisti o di testate, rammentai l'episodio di quel titolo ignominioso e parlai di una tra le pagine più oscure della storia del giornalismo italiano».
Come fu la reazione della sala?
«Scoppiò un brusio generale e vedevo tutti darsi di gomito attoniti e impreparati».
Insomma Ottone antesignano di questi vandali?
«Non solo imbrattatore ma anche novello don Abbondio: Il coraggio - diceva Manzoni - uno se non ce l'ha, mica se lo può dare».
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