Dove c'è accoglienza c'è truffa. Ai danni dello Stato e quindi dei cittadini. Il business dei migranti è ormai sotto la lente di ingrandimento della magistratura. E non solo. L'indagine nei confronti del sindaco di Riace, osannato da tv, giornali progressisti e financo dal Papa, è solo la punta di un iceberg che troppo spesso ha portato alla luce illeciti. Dietro la facciata buonista dell'ospitalità a volte si cela il malaffare e la scarsa trasparenza. Non per nulla il Viminale nel maggio scorso ha disposto un piano di ispezioni in tutte le strutture: oltre duemila controlli per verificare il rispetto della legalità. E lo ha fatto all'indomani dell'inchiesta della procura di Catanzaro sul Cara di Isola Capo Rizzuto che ha portato al fermo di 68 persone e che ha messo in luce l'ipotesi che 36 milioni su 105 destinati dallo Stato all'accoglienza siano finiti nelle mani della 'ndrangheta.
Non c'è da stupirsi però. Basti ricordare la famigerata frase con cui Salvatore Buzzi, «socio» di Massimo Carminati, spiegava che «gli immigrati rendono più della droga». Quando non è la criminalità organizzata a mettere le mani sull'accoglienza, ci pensano imprenditori, onlus e cooperative. E spesso gli altarini si scoprono. Lo scorso giugno, Angelo Scaroni, uomo d'affari con all'attivo circa 40 strutture che ospitano stranieri, è stato indagato dalla procura di Brescia. Motivo? Alcuni centri erano fantasma, altri non avevano le autorizzazioni della Prefettura, altri erano in precarie condizioni igienico-sanitarie. Ma i soldi arrivavano lo stesso: più o meno 7000 euro al giorno dal momento che dal 2005 risultava avesse in carico circa 200 migranti. D'altronde come ha dichiarato lo stesso Scaroni: «Quando si lavora si può anche sbagliare».
Nel gennaio scorso anche l'hotspot di Pozzallo è finito al centro di un'inchiesta della Procura di Ragusa che ha denunciato sei dipendenti accusati di truffa e frode nelle pubbliche forniture perché gonfiavano le fatture relative all'acquisto di beni per un importo di oltre 650 mila euro.
Da Nord a Sud i casi si moltiplicano. Nell'ottobre 2016 l'amministratore unico di una società di Potenza addetta all'accoglienza è stato arrestato perché falsificava le presenze degli stranieri aumentando i profitti ed è stato indagato anche per un bando sospetto del valore di 9 milioni di euro.
Nell'aprile 2016, questa volta in provincia di Padova, i vertici della coop «Ecofficina» sono stati accusati di truffa aggravata ai danni dello Stato e maltrattamenti dei profughi. Qualche mese prima a Gorizia la Finanza aveva indagato per associazione per delinquere, peculato e frode 21 persone di una Onlus. L'accusa? Invece di dare il pocket money ai migranti lo tenevano per loro.
Al netto di eventuali processi e tenendo ben salda la presunzione di innocenza, è indubbio che le anomalie sulla gestione dei profughi sono sotto gli occhi di tutti. Risultano persino scritte nero su bianco nell'ultima relazione della commissione parlamentare di inchiesta sui migranti da cui è emerso che, a seguito di ispezioni, in alcuni centri i migranti non ricevono il pocket money da mesi oppure lo ricevono solo in contanti, altri invece solo attraverso schede telefoniche, sigarette o marche da bollo. Nessuna tracciabilità, poca trasparenza. Solo per fare un esempio, nella struttura «Villa Marika» di Forino (Avellino), la commissione ha riscontrato una «scarsa precisione nel calcolo dei giorni di presenza dei migranti».
È la stessa Commissione che tre mesi fa ha chiesto la chiusura di uno dei simboli dello spreco
e dell'illegalità: il Cara di Mineo. Assunzioni clientelari, commerci in nero, false presenze di richiedenti asilo, un direttore indagato e poi il commissariamento. Eppure il centro è ancora lì. Con tutti i suoi problemi.
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