«Abbiamo una banca». Ma ancora per poco. Quel Monte dei Paschi di Siena che per un quarto di secolo è stato un feudo degli ex comunisti, fino ad arrivare a un passo dal crac ed essere salvato dallo Stato nel 2017, è oggi controllato dal governo di centro destra. Per la prima volta dalla riforma bancaria degli anni Novanta il trio FdI-Lega-FI ha la possibilità di nominare i vertici di un big del credito: la lista uscirà entro il week end e sarà la prima della tornata di nomine.
«Abbiamo una banca», appunto. E che banca, Mps. Fino alla fine dello scorso decennio la banca rossa per antonomasia: i top manager del Monte li nominava la Fondazione che, a sua volta, era governata da Comune di Siena, Provincia e Regione Toscana, tutti saldamente in mano a maggioranze Pci, Ds, Pd. La letteratura di quegli anni di gestione delle nomine e poi della banca stessa è ricca di aneddoti di ogni tipo. Tutti concordi nel descrivere l'esercizio del potere - della Fondazione, e della banca che all'ente distribuiva i dividendi necessari per finanziare ogni tipo di attività sul territorio - attraverso una suddivisione effettuata all'interno di una vera e propria casta locale. Poi tutto questo è finito, andando a sbattere nell'acquisizione di Antonveneta che, sotto la presidenza di Giuseppe Mussari (nella foto, arrivato in banca proprio dalla Fondazione e giunto fino al vertice dell'Abi), si è rivelata l'operazione sbagliata nel momento sbagliato: quello della crisi finanziaria della fine degli anni Dieci. Il classico passo più lungo della gamba. Quello in grado di far collassare la banca più antica del mondo, al netto delle varie vicende giudiziarie e dei fatti di cronaca. Il più drammatico dei quali è il suicidio, avvolto da omissioni e sospetti, del capo della comunicazione di Mps, David Rossi, trovato morto sotto Rocca Salimbeni esattamente 10 anni fa.
Sono seguiti aumenti di capitale uno via l'altro, che hanno via via azzerato la Fondazione e gli enti locali. Ma senza l'intervento dei contribuenti italiani, il Monte dei Paschi sarebbe fallito. Così è infine passato sotto il controllo del Tesoro, che ne controlla il 64% (il resto è in Borsa). Il vecchio sistema di potere è stato spazzato via. Persino la Cgil, che attraverso la Fisac era il primo sindacato in Mps (caso raro per le banche italiane), ha dovuto lasciare il passo alla Fabi. Ma che la casta sia ancora oggi depositaria di storie e segreti della Siena rossa e del suo Monte è più una certezza che un'ipotesi.
Nel nuovo corso, gli attuali vertici in scadenza con l'assemblea del 20 aprile prossimo - il presidente Maria Patrizia Grieco e l'ad Luigi Lovaglio - sono stati nominati dal governo Draghi. E ora tocca a Meloni. «Abbiamo una banca», quindi? Sì, ma per poco, come si diceva: il salvataggio di Mps è stato possibile in ambito europeo solo a condizione che la banca venisse poi ceduta sul mercato. Operazione che deve essere fatta entro l'anno prossimo, meglio se già nel 2023. Lovaglio è il manager che ci sta lavorando e, fin qui, ha fatto assai bene: in 13 mesi ha chiuso un aumento di capitale da 2,5 miliardi, una campagna di esodi incentivati per 4.125 dipendenti e ha riportato il titolo nei big della Borsa. Ma l'origine draghiana della sua nomina lo rende indigesto a qualcuno: più a Salvini che a Meloni, mentre il ministro dell'Economia Giorgetti sembra essere favorevole alla conferma. Salvini potrebbe accontentarsi della nomina a presidente di Nicola Maione, già in cda, magari con qualche delega relativa alla privatizzazione. Partita aperta, anche perché nell'ultima legge di Bilancio è stata inserita una polpetta avvelenata: per i manager di banche salvate dallo Stato lo stipendio non può superare i 240mila euro lordi del tetto per la PA.
E Lovaglio ne prende 466mila. Ma qualcuno che dice che la norma è fatta apposta per salvarlo: essendo già in carica il suo stipendio non può cambiare. Mentre se lo mandano via, trovare uno che viene a Mps per 240mila euro l'anno non sarà facile.
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