Una vittoria, una riabilitazione e una grazia. Tutte in un colpo solo. E tutte sotto gli obbiettivi della telecamere. È il senso del siparietto televisivo con cui il presidente russo Vladimir Putin - annunciata una parziale, ma significativa vittoria a Mariupol e concessa una momentanea grazia ai difensori ucraini asserragliati nelle viscere dell'acciaieria Azovstal - ha «resuscitato» e «riabilitato» Sergei Shoigu il ministro della Difesa al centro di voci che lo davano per estromesso, vittima di un infarto, o addirittura avvelenato, dopo gli insuccessi inanellati in Ucraina. Ma dietro ai tre elementi più evidenti di quel siparietto se ne nasconde un quarto, vagamente subliminale. Il quarto implicito elemento è la definitiva conclusione dello status di «isolamento» assunto da Putin nei mesi precedenti la guerra. Uno status definitivamente abbandonato per ritornare al ruolo di incontrovertibile signore dei destini russi. Dai campi di battaglia alla politica, dall'economia ai negoziati con i nemici.
Ma partiamo dalla vittoria, seppur ancor monca, annunciata da Putin. Dietro il preteso successo, messo sul tavolo e dato per definitivo mentre Shoigu s'attardava a chiedere tre o quattro giorni per la conquista dei meandri di Azovstal, si cela la fretta di passare alle fasi successive ovvero la vittoria finale e la proclamazione dei nuovi assetti geografici delle zone conquistate. La vittoria finale, o meglio, la conquista dei territori delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk ancora in mani ucraine, ben difficilmente arriverà entro il 9 maggio. L'anniversario della vittoria sul Terzo Reich, celebrato ogni anno da Putin, avrà però come simbolico sipario le rovine di una Mariupol strappata a un governo di Kiev trasformato dalla propaganda russa nella reincarnazione del nazismo. E dunque la grande parata di Mosca e quella tra le macerie di Mariupol serviranno a suggellare un successo virtuale. Quel successo virtuale ha però implicazioni pratiche. Consentirà, infatti, di spostare una parte dei 22 gruppi di battaglia impegnati a Mariupol sul fronte del Donbass. Una prima linea da 480 chilometri dove uomini e mezzi faranno la differenza. Ed è questa, probabilmente, la principale ragione per cui il presidente ha deciso d'interrompere un assedio all'acciaieria capace di logorare inutilmente le sue truppe. «Ritengo inopportuno il proposto assalto all'acciaieria. Ti ordino di annullarlo... dobbiamo pensare a preservare la vita e salute dei nostri soldati e ufficiali. Non c'è bisogno - ripete Putin nel colloquio con Shoigu - di addentrarci in quelle catacombe e strisciare sottoterra, tra quelle strutture industriali». Il blocco della zona industriale attuato, come raccomanda Putin, «in modo che nemmeno una mosca possa entrare o uscire» servirà anche a dribblare le accuse di nuove atrocità che potrebbero venir rinfacciate al Cremlino.
Ma la fretta di chiudere l'assedio deriva anche da considerazioni geopolitiche. La conquista del porto sul mar di Azov, primo e unico grande centro preso con le armi in 57 giorni di combattimenti, segna l'effettiva apertura del corridoio terrestre che collega la Crimea ai territori di Lugansk e Donetsk e, in uno scenario più suggestivo, alla grande madrepatria russa. Un'evoluzione geopolitica indispensabile, in un prossimo futuro, per illustrare alla nazione i successi conseguiti con l'Operazione Speciale. Per comprendere la dimensione più subliminale del colloquio tra Putin e il «redivivo» ministro della Difesa bisogna, invece, concentrarsi sulla scenografia e sulle frasi pronunciate dai due protagonisti. La scenografia è tutta nel minuscolo tavolino che divide il presidente dal suo ministro. Un tavolino che a differenza di quello enorme usato in precedenza per ricevere non solo capi di stato stranieri, ma anche ministri e delegazioni trasmette vicinanza ed empatia.
Ma la vicinanza a problemi e questioni lo trasformano anche nell'unico ineffabile decisore. Non a caso per informarlo con la dovuta precisione Shoigu legge la propria relazione da un foglio pre stampato. Ma risponde alle osservazioni di Putin con un'unica parola. «Obbedisco».
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