Il 25 dicembre è una data che ha il potere di moltiplicare il già altissimo coefficiente di odio che Vladimir Putin cova verso tutto ciò che è ucraino. Da due anni, infatti, il presidente Volodymyr Zelensky ha stabilito che nel suo Paese il Natale ortodosso non venga più celebrato il 7 gennaio, come avviene in Russia in base all'antico calendario giuliano, bensì appunto il 25 dicembre come usa in Occidente: un modo per rimarcare non solo il distacco della Chiesa ortodossa di Kiev da quella moscovita, ma soprattutto una libera scelta di appartenenza al nostro mondo.
Immancabilmente, il 25 dicembre Putin innalza la soglia della brutalità della sua aggressione e lo ha fatto anche quest'anno: sull'intera Ucraina sono piovuti più di 70 missili e un centinaio di droni d'attacco. Il 13esimo attacco massiccio russo al settore energetico ucraino puntava a provocare blackout e blocchi del riscaldamento nel pieno dell'inverno: solo a Kharkiv mezzo milione di persone sono rimaste al gelo, senza dimenticare le vittime di questo assalto natalizio che Zelensky ha definito disumano.
A tutto questo gli ucraini resistono pur temendo l'arrivo di Trump e di fronte a sondaggi che mostrano il calo del sostegno europeo alla loro causa - perché sanno cosa li attenderebbe in caso di resa: il tragico destino di asservimento della vicina Bielorussia, ridotta a protettorato dell'impero putiniano e base delle sue forze militari, con gli oppositori politici torturati nelle galere del regime. Ecco cosa ha dichiarato ieri senza vergogna il dittatore vassallo Lukashenko: «Siamo pronti a schierare sul nostro territorio i missili balistici ipersonici russi Oreshnik (quelli devastanti lanciati contro Dnipro un mese fa e che Putin vanta come non intercettabili): per ora solo una decina e poi vedremo, se i russi vorranno piazzarne di più, ne metteremo di più». Non è difficile capire come risponderebbe alla «richiesta» di Putin di piazzarne qualche decina in Ucraina, puntati verso l'Europa, un dittatore nominato dal Cremlino a Kiev dopo l'eventuale sconfitta di Zelensky.
Ieri è tornato a farsi sentire Putin, infliggendo a russi e ucraini la prospettiva di un 2025 in cui «tutti gli obiettivi dell'operazione speciale saranno conseguiti. Vogliamo chiudere la guerra, non congelarla», ma tacendo sull'ecatombe di quasi 800mila tra morti e feriti russi e sulle crescenti difficoltà dell'economia al quarto anno di guerra. Putin ha dovuto ammettere che il mancato rinnovo dell'intesa con Kiev sul transito del gas russo impedirà le consegne ai clienti europei e ha riferito della disponibilità del premier slovacco filorusso Robert Fico a mediare tra Mosca e Kiev. Ha parlato anche il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov: «Non ci illudiamo su una facile soluzione della crisi ucraina con Donald Trump alla Casa Bianca, poiché l'obiettivo di sconfiggerci sembra immutato.
La tregua non porterebbe da nessuna parte, siamo pronti a colloqui», ma ovviamente alle rigide condizioni poste da Putin definite con l'ipocrita etichetta di «garanzie di sicurezza per la Russia e i suoi vicini», ossia l'indebolimento della Nato a Est. Lavrov ha anche definito «ambigui» i francesi, con cui non ritiene valga nemmeno la pena di discutere.
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