Non contiamo la Commissione Bozzi dell'83 che pure è la madre di tutti i disastri. Cominciamo con la Seconda repubblica e la Bicamerale De Mita- Iotti, in due round, del '92. Poi c'è la Bicamerale voluta da D'Alema sulle macerie della precedente, nel 1997. Poi ancora, semplificando e scremando, ecco il disegno di legge del centrodestra sulla devolution del 2005, bocciato alla strettoia del referendum, e quello del 2015-16 che taglia, sempre attraverso la consultazione popolare, le gambe a Renzi.
Risultato: tutto è rimasto immobile, fra veti incrociati e sgambetti all'ultimo miglio.
E tutto si è ritorto contro i leader che ci hanno provato. Trent'anni di tentativi per modificare la seconda parte della Costituzione, trent'anni di fallimenti. E di figuracce dei leader che avevano scommesso sul cambiamento: si può capire che sia andata storta nel '92, con il terremoto di Mani pulite in pieno svolgimento e con il parlamento degli inquisiti che verrà sciolto nel '94 da Scalfaro. Diciamo che De Mita e la Iotti, nomi che evocavano la prima repubblica, avevano sbagliato periodo storico. Ma De Mita viene anche «avvisato», con un avviso di garanzia spedito al fratello.
Le cose non vanno meglio nel 1997, quando è D'Alema a metterci la faccia, e nel 2005 quando il boomerang torna addosso a Berlusconi, Bossi e Calderoli, l'eterno padre del cantiere delle riforme. E rimbalza nel modo peggiore, con il referendum perso in un paese spaccato. Esattamente come capiterà nel 2015-2016 a Matteo Renzi: il suo progetto ambiziosissimo si sfascia contro il voto del popolo che butta giù i suoi sogni di modernizzare l'architettura istituzionale dello Stato e lo costringe alle dimissioni da Palazzo Chigi.
Si, si può tranquillamente sostenere che l'idea di mettere mano alla macchina scassata e antiquata della Repubblica non abbia mai portato fortuna a chi ci ha provato. Veniamo da trent'anni di testi scritti, solo a considerare l'Italia nata sulle ceneri della rivoluzione giudiziaria, convegni e riflessioni che hanno scandagliato tutti gli aspetti del potere da risistemare. Dal bicameralismo perfetto alla riduzione dei parlamentari, effettivamente avvenuta nella scorsa legislatura, e poi dal ruolo del capo del governo al funzionamento del Csm e alla sempre osteggiata separazione delle carriere.
La Bicamerale del '97 cade proprio sulla giustizia: il 22 febbraio 1998 esce su Repubblica un'intervista pesantissima al pm di Mani pulite Gherardo Colombo: «Le riforme sono ispirate dalla società del ricatto».
Elena Paciotti, presidente dell'Associazione nazionale magistrati, convoca un convegno per mettere i bastoni fra le ruote al disegno riformatore e il presidente Scalfaro interviene con una dichiarazione che è la lapide sulla Commissione: «Condivido parola per parola».
Non va meglio nel 2005 e neppure nel 2016, quando Renzi mette in gioco la propria poltrona. Così, come spesso accade in questi casi, si vota il gradimento al leader e si scontrano simpatie e antipatie, giudizi politici e pregiudizi ideologici. Il merito, a quel punto, non interessa più. È un accessorio che finisce in fondo alle urne. Insomma, un'altra volta le modifiche si perdono per strada e quel che rimane sono le dimissioni di Renzi.
Un altro cavallo di razza azzoppato dalla presunzione di cambiare un paese immobile. «Si può scegliere la strada della Bicamerale, cercando di coinvolgere l'opposizione in parlamento - spiega Alfonso Celotto, costituzionalista e saggista - oppure, come è accaduto, si può partire da un disegno di legge, espressione del governo e della maggioranza: in tutti e due i casi in Italia è andata male e non si è approdati a nulla.
L'unica riforma approvata è quella del titolo V, voluta dal centrosinistra nel 2001 e che però è stata realizzata in modo approssimativo. Lasciandoci in eredità una sfilza di contenziosi fra Roma e le regioni davanti alla Corte costituzionale». Si aspetta il nuovo giro di valzer.
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