Impegnata a realizzare il maxi pacchetto ambientale «Fit for 55» basato su un approccio dirigista, l'Unione europea ha trovato il tempo per approvare la nuova direttiva «Women on Boards», un'intesa tra Parlamento, Consiglio e Commissione Ue nata con l'obiettivo di «garantire la parità di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa nell'Ue». Si tratta di una misura che introduce l'obbligo di quote rosa nei consigli delle aziende europee «in modo che almeno il 40% degli incarichi di amministratore non esecutivo o il 33% di tutti gli incarichi di amministratore siano occupati dal sesso sottorappresentato». Sebbene l'intento sia quello di garantire più diritti alle donne, il risultato è opposto poiché così facendo si contraddice ogni principio di meritocrazia: occorre dare incarichi alle donne perché di valore e per i loro meriti e non per il semplice fatto di essere di sesso femminile. Con la «Women on Boards» si arriva al punto di affermare che «nei casi in cui i candidati siano ugualmente qualificati per un posto, la priorità dovrebbe andare al candidato del sesso sottorappresentato». L'obbligo delle quote, già discutibile nel settore pubblico, diventa un'assurdità se applicata alle aziende private. Perché un'entità come l'Unione europea deve imporre il personale a un'impresa privata? Con quale diritto un ente pubblico (tra l'altro sovranazionale) entra nelle dinamiche di gestione di un'azienda? Si tratta di un modus operandi tipico dei paesi socialisti che è l'opposto di ogni principio di economia liberale. Invece di continuare a imporre regole e paletti alle aziende dall'ambito ambientale al tema dei diritti, l'Unione europea dovrebbe lasciare lavorare gli imprenditori che in questo periodo hanno gravi problematiche dovute al caro energia e alle sanzioni. Al contrario, per sopperire alle proprie mancanze nelle politiche energetiche, nel contrasto alle aggressive politiche economiche della Cina, l'Ue continua a imporre obblighi e adempimenti.
Così, le società interessate dalla normativa «Women on Boards» (con più di 250 dipendenti), dovranno «fornire informazioni alle autorità competenti una volta all'anno sulla rappresentanza di genere nei loro consigli» e, se non rispetteranno le quote obbligatorie, andranno incontro a sanzioni. Non è questa la strada per una battaglia importante come la parità di genere.
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