Rabbia e minacce al funerale Hezbollah «Pronti al martirio ma l'Iran ci ha traditi»

Inni alla lotta tra le macerie. L'odio per l'Occidente e i malumori verso Teheran: «Non fa abbastanza»

Rabbia e minacce al funerale Hezbollah «Pronti al martirio ma l'Iran ci ha traditi»

Nabatieh (Libano). La strada a doppia corsia per Nabatieh, nel Sud del Libano, è deserta. Più ci avviciniamo alla città, roccaforte di Hezbollah, aumenta il presagio di morte e distruzione. Già in periferia il fumo grigio scaturito dai bombardamenti israeliani si alza da un edificio colpito al lato della strada. Ci passiamo in mezzo con un brivido che corre lungo la schiena. Sembra che non ci sia anima viva. Più avanti è ancora peggio: l’asfalto è cosparso dai detriti di due palazzine fatte a pezzi dalle bombe ancora avvolte nel fumo. Le macerie di un’altra zona bombardata ci costringono ad una veloce retromarcia. Per arrivare in centro percorriamo un desolato vialone dove sventola da ogni lampione la bandiera gialla di Hezbollah.

Il fumo davanti a noi si fa più intenso e poi sparisce di colpo lasciando spazio a un paesaggio apocalittico intriso dell’odore pungente delle esplosioni. Il centro dove sorgeva il municipio non esiste più. Il palazzo è accartocciato, le automobili schiacciate e semi sepolte. Il sindaco, Ahmad Kahil, è rimasto ucciso assieme a tutto il suo entoruage e altre 40 persone hanno subito ferite che vanno dall’amputazione traumatica a schegge conficcate nel corpo. Molti erano civili che alle dieci del mattino venivano a ritirare gli aiuti alimentari per tirare avanti. Nell’ospedale di Nabatieh i sacchi neri con i cadaveri hanno riempito la cella frigorifera.

“La situazione è molto grave, una catastrofe - spiega Mohammad Abdallah, il direttore, in camice verde da chirurgo - Ci avevano già bombardato, ma questa volta hanno lanciato una quindicina di raid aerei uno dietro l’altro”. Dalla città, vista dall’alto, si alzano in più punti i pennacchi di fumo bianco. Gli israeliani sostengono di avere colpito sedi e arsenali di Hezbollah in una giornata di escalation che ha riportato le bombe a Beirut, dopo giorni, nella valle della Beeka e a Qana.
La piccola Lea si stringe al papà, che lavora nel reparto d’emergenza dell’ospedale dove vive e ha portato la famiglia. “Ha visto tutto, i feriti, i corpi spappolati - racconta Ziad - voi europei dovete fermare questa guerra”.

Il sangue e il dolore viene utilizzato da Hezbollah per serrare le fila e prepararsi a dare del filo da torcere agli israeliani, che combattono duramente, ma ancora a poche centinaia di metri oltre il confine. “Noi siamo tutti con Hassan Nasrallah” gridano in coro, alzando i pugni verso il cielo centinaia di sciiti, uomini, donne e mullah per il funerale di 16 persone, comprese ragazze appena maggiorenni, uccise da un attacco mirato israeliano dal cielo a Maaysra, 35 chilometri a Nord di Beirut. Il villaggio è misto con i cristiani ed in prima fila davanti alle bare si affaccia un prete con la croce al collo.

La scena della casa accartocciata dalle bombe è stata preparata ad hoc per i giornalisti con un grande striscione su un’automobile polverizzata dall’attacco, che raffigura la statua della Libertà in versione satanica. E sotto c’è la scritta “Made in Usa”. Ovvero le bombe sganciate dagli israeliani in Libano sono americane. Il paradosso è che Mohammed Rida, uno zio, sopravvissuto per miracolo, mostra con orgoglio il passaporto a stelle e strisce. Il capofamiglia faceva parte di Hezbollah, ma giurano dell’ala politica e non militare.

Quello che impressiona è la trasformazione del funerale in una chiamata al “martirio”. Una donna avvolta nella tunica nera che lascia libero solo il volto si agita, piangendo e urla: “Mio fratello è uno dei martiri. Si è sacrificato per Hassan Nasrallah e per le terre del Sud” invase dagli israeliani. Le foto del leader ucciso sono dappertutto, ma colpisce che l’unica immagine del grande ayatollah Alì Khamenei, guida suprema dell’Iran, sia relegata per terra all’ingresso della moschea, in secondo piano. Hezbollah non lo ammetterà mai ufficialmente, ma i miliziani sono convinti “che l’Iran non fa abbastanza per appoggiarci nella lotta”. Circolano voci di tradimento anche per la fine di Nasrallah, ma in realtà è sempre la costola della brigata Al Qods dei Guardiani della rivoluzione a coordinare le operazioni militari dopo la decapitazione dei vertici.

Mariam Amro è una ragazzina che insegna inglese con il viso pulito avvolto dall’hijab, il velo nero. In poche parole spiega tutto: “Siamo gente di fede e sappiamo che vinceremo. Il sangue versato ci sprona ad andare avanti”. Alla domanda sul perché porta il velo risponde candidamente: “E’ quello che Dio mi ha chiesto di fare”. Sprizza felicità per le manifestazioni in Italia, pro Gaza, che sventolano le bandiere di Hezbollah a dimostrazione, secondo lei, “che non siamo terroristi”. Per la marcia funebre spuntano gli stendardi gialli sulle bare portate a spalla.

In prima fila c’è un ferito, che arranca con le stampelle, in divisa da boy scout. Il grido di battaglia con i pugni alzati non lascia dubbi: “Siamo tutti resistenza”. I giovani miliziani vestiti di nero si battono il petto come ai tempi di Hussein, il mito sciita, pronti al martirio.

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