Zabihullah Mujahid è tutt'altro che uno sprovveduto. Alto un metro e ottanta, 34enne, barba d'ordinanza e sguardo che buca lo schermo, non ha molta dimestichezza con il kalashnikov, ma è il perfetto esempio del «talebano 2.0». La tecnologia, così come la propaganda media e social, sono diventate il nuovo strumento di guerra dei fondamentalisti afghani. Mujahid non è il classico self made man, si occupa di comunicazione almeno dal 2007, ed è stato in Siria, dove ha prima appreso nozioni di giornalismo, arrivando poi a collaborare con la rivista Dabiq, dal 2014 al 2016 organo ufficiale del Califfato Islamico. Di sicuro ha contribuito alla stesura dell'ottavo numero dal titolo «Consolidamento ed Espansione», così come la sua firma appare nel 15esimo, quando farnetica sull'importanza di «rompere la Croce per assicurarsi che il Vaticano diventi musulmano».
Dal punto di vista mediatico l'Isis è stato precursore del progetto che i talebani, un po' a sorpresa, stanno portando avanti dalla presa di Kabul. Gli uomini di Al Baghdadi arrivarono persino a confezionare pellicole sulle esecuzioni che non avevano nulla da invidiare, per girato, grafica, effetti scenici e sonori, ai più famosi giochi della Playstation. Mujahid ha imparato, studiato, appreso e messo a disposizione le conoscenze acquisite ai due suoi principali collaboratori: Shail Shaheen e Muhammad Naeem. Sono nomi difficili da memorizzare, ma impareremo presto a farlo, essendo tutti e tre compulsivamente presenti su twitter, instagram e in tv. In passato i talebani inviavano alle redazioni delle più importanti emittenti del mondo video di propaganda o di esecuzioni di ostaggi in formato vhs. Erano contenuti artigianali, spesso non pubblicati per l'estrema violenza. Il filtro occidentale si è interrotto grazie all'utilizzo delle nuove tecnologie che ad esempio hanno consentito a Shaheen nei giorni scorsi di contattare in diretta la Bbc presentandosi come portavoce ufficiale, incaricato dei rapporti coi media internazionali. Shaheen ha garantito che «la presa di Kabul non è avvenuta nel sangue. Le vite e le proprietà dei cittadini sono al sicuro. Siamo i servitori del popolo e dell'Afghanistan». Affermazioni condite da un video in cui si vedono le ragazzine di Herat che tornano a scuola indossando hijab bianchi e tuniche nere, non come negli anni Novanta, quando venne imposta una versione integralista della sharia, che negava per gran parte l'istruzione e il lavoro alle donne. A loro favore gioca la diffusione di internet in Afghanistan, che è in forte crescita. Nel 2018 la rete era a disposizione dell'11,5% della popolazione, oggi sfiora il 15%.
La piattaforma preferita rimane Twitter, dove Mujahid appare come Official Twitter Account of the Spokesman of Islamic Emirate of Afghanistan e racconta con dovizia di particolari le avanzate dei talebani postando video e comunicati. Nelle immagini si vedono aree distrutte o villaggi in fiamme, ma non cadaveri di persone. Se Mujahid «cinguetta» in arabo, Shaheen lo fa in inglese. Il suo compito principale è quello di fare terra bruciata attorno alle divulgazioni anti-talebane. A ferragosto twittava che «è falso e infondato che stiamo uccidendo, facendo prigionieri, forzando le persone a darci in sposa le proprie figlie». Affermazioni che però fanno a pugni con quelle delle principali associazioni umanitarie che proverebbero l'esatto opposto. Il lavoro di Muhammad Naeem, il vero esperto d'informatica della triade, è molto più sottile e subdolo.
Da un lato scova e oscura i profili delle donne afghane istruite, quelle che da anni, proprio attraverso i social, avevano smascherato gli atteggiamenti violenti dei jihadisti. Dall'altro gestisce e pilota account di cittadini comuni trasformandoli in megafono della propaganda.
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