Le torture, anche con le scosse elettriche, patite da Giulio Regeni in Egitto prima di essere abbandonato sul ciglio di una strada alla periferia del Cairo il 3 febbraio del 2016, prendono forma nell'aula della prima Corte d'Assise di Roma dove si sta svolgendo il processo a carico dei quattro 007 egiziani accusati della sua morte, per bocca di un cittadino palestinese che è stato rinchiuso nella stessa struttura degli apparati egiziani del ricercatore friulano.
«Era ammanettato con le mani dietro alla schiena, con gli occhi bendati, era a circa 5 metri da me. Indossava una maglietta bianca, pantaloni larghi e blu scuro. In seguito l'ho rivisto che usciva dall'interrogatorio, sfinito dalle torture, tra due carcerieri che lo portavano a spalla», è il racconto che l'ex detenuto ha fatto a un giornalista di Al Jazeera, poi trasmesso in un video-documentario della tv araba mostrato ieri in aula. Una testimonianza shock del trattamento riservato a Giulio, che era in Egitto per una ricerca sui sindacati indipendenti per conto dell'Università di Cambridge.
Era il tardo pomeriggio del 29 gennaio, pochi giorni prima del ritrovamento del cadavere. Nel video il palestinese spiega di aver visto anche un altro detenuto con segni di tortura sulla schiena e che i carcerieri insistevano per sapere da Regeni dove avesse imparato a superare le tecniche per affrontare l'interrogatorio. «Dove hai conseguito il corso anti-interrogatorio?», gli continuavano a chiedere in dialetto egiziano. «Non so se Giulio abbia risposto o meno a questa domanda. Insistevano molto su questo punto, erano nervosi. Usavano la scossa elettrica e lo torturavano con la corrente elettrica», racconta il palestinese che ha visto uscire il ricercatore italiano dalla palazzina del carcere, passando nel corridoio, diretto al luogo dove avveniva l'interrogatorio, effettuato in arabo e in dialetto egiziano. «C'erano anche ufficiali che non avevo mai visto prima e un dottore specializzato in psicologia», continua la deposizione dell'ex detenuto. Anche lui in quel periodo era come scomparso nel nulla: «Quando ero in quella struttura i miei familiari non sapevano niente di me, non c'era nessun contatto col mondo esterno: la sensazione era quella di stare in un sepolcro. Sono stato sequestrato, detenuto e poi liberato senza un perché».
A Giulio è andata peggio. «Hanno fatto tanto male a tuo fratello», è con queste parole che Irene Regeni, la sorella minore del ricercatore, ha saputo dalla mamma al telefono che in Egitto era accaduto qualcosa di terribile. «La parola tortura però l'ho sentita per la prima volta al telegiornale», spiega Irene alla Corte. È una testimonianza forte, la sua, che fa commuovere i giurati popolari. Alcuni piangono, altri hanno gli occhi lucidi. Anche lei è visibilmente commossa, al polso indossa i braccialetti gialli con il nome del fratello. «Nel 2016 avevo 24 anni, quando lui era andato via di casa avevo 12 anni e lui 17: vedevo mio fratello come un esempio, era il mio fratellone. Mi è piaciuto tantissimo andarlo a trovare in New Messico con tutta la famiglia e lui, in quell'occasione, mi ha presentato i suoi amici. Avevamo punti di vista diversi sulle cose, lui era un umanista e io una scienziata, eravamo sempre in contatto su questioni importanti e ci sentivamo spesso.
Lo ricordo come un ragazzo aperto e interessato a studiare le altre culture», ha concluso. La prossima udienza, il 3 dicembre, verrà ascoltato il giornalista di Al Jazeera che ha realizzato l'intervista all'ex detenuto palestinese.
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