Era il 20 agosto 2017. Luigi Di Maio, in un comizio a Gela, riscuoteva applausi scroscianti al pronunciare queste parole: «Da noi vale la regola dei due mandati e vale anche per me. Nel Movimento 5 stelle chi pensa di fare un terzo mandato è fuori». E ha ribadito il concetto persino a due giorni dalle elezioni: «Il tema del limite del doppio mandato è fondamentale per noi e si basa su un concetto importante: non esistono politici di professione».
Adesso però la musica è cambiata. E il M5s sembra pronto a passare dalle regole alle deroghe. Negli ambienti pentastellati serpeggia l'incubo di dover fare armi e bagagli e tornare alla vita quotidiana lontana dai riflettori mediatici. E non è un caso che a dire vaffa ai principi fondanti del Movimento sia uno che traballa. Parliamo del deputato Carlo Sibilia che ha dato per certa l'ipotesi di un terzo mandato per il candidato premier Di Maio e che ha preannunciato: «Sulla deroga al secondo mandato ci rifletteremo con la dovuta ragionevolezza».
Insomma, scurdámmoce 'o ppassato. Eppure non sono lontani i tempi in cui Beppe Grillo ricordava sul blog che «una delle regole fondanti è quella dei due mandati elettivi a qualunque livello. Consigliere comunale, sindaco, consigliere regionale, parlamentare nazionale ed europeo. Questa regola non si cambia né esisteranno mai deroghe ad essa». Era il marzo 2017. E per conferire maggior peso al comunicato citava una frase emblematica di Gianroberto Casaleggio: «Ogni volta che deroghi a una regola praticamente la cancelli».
Il problema è che per i pentastellati il rischio adesso è quello di cancellarsi da soli. Già, perché se si tornasse alle urne, una folta schiera di parlamentari dovrebbe appendere al chiodo la giacca di onorevole. A partire dallo stesso Di Maio.
Qualche nome? Non sarebbero più deputati Giulia Grillo, Manlio Di Stefano, il presidente Roberto Fico, Riccardo Fraccaro, Marta Grande, Carla Ruocco, Giulia Sarti, Angelo Tofalo, solo per citarne alcuni. I grillini perderebbero diversi volti noti pure in Senato. Dal capogruppo Danilo Toninelli, colui che si vantava in televisione di essere tra «i killer di Berlusconi», alla vicepresidente Paola Taverna passando per i fedelissimi Vito Crimi e Nicola Morra, fino ad arrivare ad Andrea Cioffi, Michele Giarrusso, Elio Lannutti (già senatore dell'Idv), Barbara Lezzi e Alberto Airola.
E ancora: spazzati via il senatore Stefano Patuanelli, già consigliere comunale del Movimento 5 Stelle a Trieste; il senatore Gianluca Perilli, già consigliere della Regione Lazio; Stefano Buffagni, deputato ed ex consigliere regionale della Lombardia; Antonio Federico, ex consigliere regionale del Molise e Alvise Maniero, per cinque anni sindaco di Mira e poi eletto alla Camera. Sarebbe praticamente uno tsunami. Una spada di Damocle che taglierebbe le teste più mediatiche e di peso all'interno del Movimento stesso. Persone, e non più politici, che sarebbero costrette a ricominciare da capo. E che potrebbero al massimo trasformarsi in un alter ego di Alessandro Di Battista, girovago ex parlamentare libero di sparare contro gli avversari politici senza dover rendere conto a nessuno. Con l'unica sostanziale differenza che per tutti gli altri sarebbe una scelta forzata che li obbligherebbe, nella maggior parte dei casi, alla disoccupazione. E col paradosso che il prode «Dibba», avendo saltato un giro visto che non si è candidato alle Politiche, potrebbe invece tornare in pista.
Insomma, Di Maio ora è
davanti a un bivio: esibirsi nell'ennesima giravolta rinunciando ai principi fondanti del M5s oppure rispettare quelle stesse regole che lui ha sottoscritto. Col rischio di tornare a fare lo steward allo stadio del Napoli.
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