Se non alla storia patria, almeno a quella familiare passerà alla storia come «l'anno del gambero».
Da undici mesi il non-più cavallino rampante Matteo Renzi salterella all'indietro, dilapida il patrimonio vantato in ormai antidiluviane Europee, raccoglie ciò che ha seminato. Così persino la generosissima terra di Sicilia riserva al segretario arida mietitura: il Pd precipita al di sotto di quella fatidica soglia del 13 per cento che le veline del Nazareno da giorni avevano messo avanti come mani arrendevoli: la scarsa eredità bersaniana del 2012. Eppure, in questa corsa a perdere, l'essere giunti al confine della doppia cifra rende il partito renziano inquieto più che mai. Prova ne sia l'arroganza dal sen sfuggita al presidente Orfini, voce in chiaro del pensiero recondito, che alla vigilia ha avuto il compito di blindare Renzi in qualità di candidato «scelto dal popolo e non da un club di ministri». Segno che la concorrenza di Gentiloni, «candidato irricevibile» dice Orfini, fa davvero paura. Così come l'idea di una riconciliazione con agguerrite forze di centrosinistra, gli odiati cugini di Mdp («Se vogliono, sanno dove trovarci»).
A rafforzare il concetto, prima che sia troppo tardi, Renzi domani sfida in campo televisivo il grillino Di Maio, ovvero quello che si presume sarà il principale competitor delle Politiche, con ciò bruciando le tappe di un appuntamento elettorale che il segretario vuole confermare per il «prima possibile»: ovvero il 4 marzo (Mattarella che ne pensa?). Accelerazione propagandistica che tenta di scongiurare ripercussioni dopo il terzo fiasco nel giro di un anno, appunto. Renzi che si conferma un «perdente di successo». Questo il concetto dal quale il leader vuole tenersi alla larga manco si trattasse l'ombra di uno zombie. Tanto da mettere tra sé e la Sicilia avara di soddisfazioni quasi 7.800 km, nei giorni cruciali di campagna elettorale, quando tutti i leader nazionali calavano a sostenere i propri candidati. Lui invece era a Chicago, un Halloween con Obama, ormai uccello di malaugurio delle vigilie elettorali renziane. Matteo, come dice Bersani, «non è però uno che cambia idea e ammette l'errore». Era già capitato il 18 ottobre 2016, nella famosa cena di commiato dalla Casa Bianca del presidente Usa, quando l'ex premier portò con sé le «eccellenze italiane» in carne e ossa. Per poi subire, poco dopo, lo schiaffo del referendum (un anno fa esatto, il 5 di novembre, era invece in piena Leopolda 7, con tanto di scontri di piazza e manganellate agli «anti»). Prima delle comunali dello scorso giugno, invece, l'apporto del segretario riconfermato «dal popolo» era stato relegato a poche uscite infruttuose e tanti inutili post sul Web. Segno che Matteo sempre più somiglia a quei calciatori che giocano soltanto «per se stessi», e spariscono quando c'è da soffrire. Cosa resa evidente anche da questa campagna partita malissimo, con un accordo capestro preteso da Alfano («chissà chi gliel'ha detto a Renzi che con Alfano stravinceva...», sfotteva ieri Bersani). Assente, il leader, fin dalla presentazione di Micari, a lui consigliato dal sindaco Orlando. Come messaggio di sostegno, di ritorno da Chicago, Renzi se n'è uscito con un «vinca il migliore». Al punto da costringere Orlando a consolare uno scoratissimo Micari ricordando che anche Renzi l'aveva incoronato («il migliore candidato possibile», aveva buttato là).
Parole al vento anche queste, per un segretario che ora dovrà vedersela con la solita minoranza parolaia e questuante, alla solita prossima Direzione, tanto per ribadire che il capo è lui e che, al massimo, è disposto a offrire il 20 per cento dei posti in lista alle Politiche. Altra gara che lo vede in qualità di «terzo incomodo». La vittoria, quella, se la giocheranno altri.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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