Matteo non chiude a Salvini e Berlusconi. "Giuseppi? Un rebus"

Renzi tiene aperti i canali con Fi e Lega. Contatti anche con la Carfagna. E sul terzo mandato: "Non mi entusiasma, anzi mi convince poco"

Matteo non chiude a Salvini e Berlusconi. "Giuseppi? Un rebus"

Le ultime speranze di Giuseppe Conte di restare in sella, senza passare per le forche caudine di una crisi di governo, sono tramontate ieri mattina. Matteo Renzi ha scartato l'ipotesi di un'astensione dei renziani sulla relazione Bonafade: «Mi taglio le balle ha esclamato con gli emissari del Pd che hanno parlato con lui forse esagero, le balle no, ma dovrei essere del tutto ubriaco per astenermi su Bonafede. Hanno tentato per una settimana di soffiarmi il gruppo e ora mi chiedono la desistenza. Ma su!». La seconda cattiva notizia è arrivata dall'Udc: nessuna intesa con il premier. Ieri mattina Conte ha telefonato a Paola Binetti per tirarla a sé: «Dai vieni, che dopo di te verranno anche quelli di Toti, di Cambiamo». Invano. «Niente da fare ha tagliato corto Antonio Saccone, portavoce dell'Udc prima Conte deve dimettersi eppoi si apriranno i giochi, ma senza di lui». La verità è che il premier non ha mai avuto nulla in mano, solo congetture, costruzioni mentali, partorite dalla sua fantasia e dai ragionamenti tortuosi del suo «consigliori» del momento, Tigellino-Travaglio. Eppoi il colpo di grazia gli è arrivato dalla lettura dei giornali. Sulla prima pagina de La Repubblica, titolo cubitale: «Un milione di lavoratori senza cassa integrazione». Titolo che coniugato con la prima pagina del Tempo che dava notizia dell'avviso di garanzia ricevuto dal padre della compagna del premier per truffa all'Inps (mancato versamento dei contributi) e messo in relazione con un'altra notizia di qualche giorno fa, e cioè che gli stessi figli, componenti del cda della holding che possiede l'hotel Plaza a Roma, da dipendenti della stessa impresa ricevono la cassa integrazione, avrebbe di per sé se i giornali se ne accorgessero un effetto letale. «Questa roba sconfina nel penale», ha confidato preoccupato il viceministro per lo sviluppo Economico, Stefano Buffagni, facendo ricorso alle sue doti di esperto commercialista.

Una serie di episodi che hanno fatto capire al premier che è arrivato il momento di prendere la strada del Colle per rimettere il mandato. Appuntamento: questa mattina. Del resto che avrebbe potuto fare? Per Conte, a questo punto, è difficile fidarsi di qualcuno se non di Mattarella. Di Zingaretti, Bettini, Di Maio che, solleticandone l'orgoglio e facendogli balenare la possibilità di utilizzare la minaccia delle elezioni anticipate, lo hanno spronato nella crociata anti-Renzi e ficcato in un cul de sac, comincia a diffidare. Gli ricordano la barzelletta di Gigi Proietti del contadino e l'«avvocato», che lui da professore di diritto conosce a menadito: il legale che dice al cliente una serie «qui se l'incu...mo» intercalati da «qui ti si incu...no»; e il contadino che alla fine esclama, «posso fa una domanda avvocà ma quando se l'incu...mo siamo sempre in due e quando ci si incu...no sò sempre solo».

Qui non si tratta dei meccanismi bizantini del diritto, dove il premier da avvocato d'affari è un portento, ma delle trappole e delle liturgie ingannevoli della politica, di cui Giuseppi è a digiuno. Mentre gli altri no. E potendo contare solo sulla lealtà di Tigellino-Travaglio e di Roccobello Casalino, due elefanti in un negozio di cristalli, il premier si è ficcato nei guai. L'idea del voto è finita in soffitta in 48 ore, quando mezzo Pd, cioè gli eredi della Margherita guidati da Franceschini e Guerini, che possono contare su tre quarti dei gruppi parlamentari, hanno portato a più miti consigli Zingaretti e Bettini. «Lo abbiamo già spiegato a Zingaretti confidava nelle ultime 48 ore Graziano Delrio e ora lo spiegheremo con calma a Bettini». «Se segui Bettini ironizzava la sottosegretario alla Sanità, Sandra Zampa perdi il bandolo della matassa. In una settimana ha fatto 40 proposte, una dopo l'altra». «Non è vero che non abbiamo ottenuto niente rimarcava il ministro della Difesa, Guerini ai suoi -: abbiamo fatto capire a Zingaretti che le elezioni anticipate non sono sul tavolo». Con i grillini non c'era neppure bisogno di parlare: se nelle assemblee dei gruppi parlamentari qualcuno si azzardasse ad accennare solo alle elezioni anticipate, verrebbe imbavagliato e gettato in un burrone come Assurancetourix, il bardo stonato del villaggio di Asterix.

Senza le elezioni anticipate Conte è diventato un Re nudo: senza quello strumento di pressione, infatti, Giuseppi si sarebbe presentato al dibattito sulla giustizia disarmato. Si è passati appunto dal qui «se li incu...mo» di Gigi Proietti, al «qui ti si incu...no». E il premier che ha un forte istinto di sopravvivenza ha capito che era arrivato il momento di fare un passo indietro.

Un passo indietro non certo indolore. Sì, perché ora il premier può anche tentare e magari riuscire a portare a casa il suo terzo governo; si farà il suo gruppo al Senato, mettendo insieme una decina di gatti randagi, che non muterà gli equilibri in campo ma farà arrabbiare gli alleati che lo considereranno l'embrione di un suo partito; ma nei fatti si ritroverà in balia di Renzi. Un Renzi che parla con pochi: sicuramente non con Zingaretti e Di Maio che lo hanno mandato avanti e poi lasciato solo; semmai ha un ristretto i rapporti con Franceschini e Guerini e continua a tenere aperti i canali di comunicazione con le opposizioni da Berlusconi a Salvini, alla Carfagna. Mentre con il premier utilizza solo intermediari. Tant'è che ieri, alle cinque della tarde, il leader di Italia Viva non sapeva cosa avesse in mente Conte: «Quest'uomo è un rebus. Certo dopo le sue dimissioni la liturgia delle crisi vorrebbe che il Colle facesse un giro di consultazioni tra i partiti». Ventiquattro ore prima, domenica scorsa, invece, l'ex premier scrutando nella palla di cristallo il futuro, non sapeva ancora dove il pallino potesse finire, né si sbilanciava sui propri desideri: «Cosa voglio? Il Conte ter è tutt'altro che entusiasmante. Anzi mi convince poco. Ma vediamo».

La verità è che il fallimento della «prova di forza» del premier, gli ha rimesso in mano una partita che sembrava gli fosse sfuggita. Ora molto dipende anche da cosa faranno gli altri giocatori quando si aprirà la crisi. Sul piatto c'è il Conte ter, ma anche governi con maggioranze simili guidati da Guerini o dallo stesso Di Maio, che ci aspira. Oppure un governo di unità nazionale, guidato da un tecnico o da una personalità istituzionale. Sulla carta c'è tutto questo, ma ogni opzione alternativa a Conte parte dalla capacità dell'opposizione di tessere la sua tela. Berlusconi vorrebbe giocare: «Io ha spiegato l'altro ieri a una parlamentare sono per un governo di unità nazionale. Dici che Tajani è su un'altra posizione? Vedrai che le prossime uscite le calibrerà diversamente». Salvini e Meloni, invece, parlano solo di urne, finendo per favorire Conte senza dare un senso alla loro azione politica, come il canto notturno di un pastore errante dell'Asia di Leopardi. E in compenso lusingano il Cav con l'idea del Quirinale. C'è da scoprire se Berlusconi per entrare nella partita della crisi «strapperà». O se lo farà solo un pezzo di Forza Italia, guidato da Mara Carfagna. Anche se nella Lega molti si sfogano sottovoce.

«Così facendo spiega Marco Maggioni diamo una mano a Conte, non ci sediamo al tavolo del Recovery plan deludendo gli imprenditori che guardano a noi e, magari, ci ritroviamo con una legge elettorale proporzionale fatta dagli altri. Così ci fottono del tutto».

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