Correre perché chi c'era prima ha già perso troppo tempo. Correre perché il mercato globale non aspetta le contorsioni della politica. Correre perché l'Italia non può rinunciare alla propria vocazione industriale e tecnologica. È questo il destino del premier Giorgia Meloni, del ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, e di quello delle Imprese, Adolfo Urso, sui principali dossier che riguardano l'industria italiana.
Il più scottante è quello relativo a Tim e alla rete unica. Dopodomani scade il memorandum d'intesa (anche se non vi è più esclusiva) tra il gruppo tlc e la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) per verificare se esista la possibilità di integrare la rete dell'ex monopolista con quella di Open Fiber (60% Cdp e 40% Macquarie). La situazione non è facile. Fratelli d'Italia è sempre stata favorevole al cosiddetto «progetto Minerva», ossia un'Opa su Telecom da parte di Cdp (eventualmente affiancata da altri investitori come Vivendi, primo socio della telco con il 23,7% e che da tempo chiede 31 miliardi per la sola rete, Macquarie e Kkr). Un piano alternativo a quello dell'ad Tim, Pietro Labriola che prevede prima una separazione societaria per procedere poi all'integrazione. Bisogna fare presto perché i sindacati temono nuovi esuberi, perché l'Italia è indietro sui tempi di realizzazione della rete a banda ultralarga e perché dal governo Renzi (che ha creato il «doppione» Open Fiber) a quello Draghi si è lasciato che la situazione si incancrenisse e sull'attuazione degli obiettivi Pnrr (rete e 5G lo sono) si sa che l'Europa non sarà tenera.
Lo stesso discorso vale per la vicenda dell'ex Ilva di Taranto. Una volta espropriati i Riva dai magistrati pugliesi, i governi Renzi e Gentiloni avrebbero dovuto trovare un nuovo partner affidabile per proseguire l'attività e garantire il risanamento ambientale. Nel 2017 il ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, diede il via libera all'offerta di ArcelorMittal scartando quella della cordata Arvedi-Jindal. Furono sufficienti solo due anni per accertare l'indisponibilità indiana a farsio carico delle incombenze che il governo Conte II accollò alla Invitalia di Domenico Arcuri ( socio dal 2021 di Acciaierie d'Italia al 38%). Manca un secondo aumento di capitale da un miliardo perché la maggioranza torni pubblica ma l'impianto ha problemi con i fornitori per il caro-prezzi e la situazione è in stallo con grave rischio per i 10mila operai dell'impianti e gli altri 10mnila dell'indotto. «Lo Stato metterà altri due miliardi, ma abbiamo il dovere di sapere come queste risorse saranno spese per recuperare il declino», ha dichiarato ieri Urso che non vuole rassegnarsi alla perdita del maggiore impianto siderurgico d'Europa.
Analoga brama di statalizzazione ha frenato la dismissione di Ita, compagnia nata dalle ceneri di Alitalia. Sono naufragate le trattative con il Fondo Certares, in cordata con Air France-Klm, mentre ora Lufthansa vorrebbe rientrare in partita da sola. Il tempo stringe perché il vettore così com'è non ha molto futuro. E questo lo sapevano sia il governo Conte (speranzoso in un salvacondotto Ue) né quello Draghi che di certo non si è affrettato. «La compagnia statale è finita, serve un partner industriale», ha precisato Urso. Si confida in affiancamento di Fs alla leadership tedesca ma il timing non aiuta.
Il problema più complesso,
sebbene non causato dalla politica, è la Lukoil di Siracusa. La raffineria non può più importare petrolio dalla Russia e dal 5 dicembre rischiano il posto 10mila persone. Il governo ha promesso un intervento questa settimana.
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