Vogliamo avere la libertà di dire quello che stiamo per dire senza che il concetto venga sporcato da qualcosa. Tanto meno dalle ideologie. Perciò chiediamo la fiducia del lettore: non è per femminismo che la notizia della Consulta sul cognome della madre al figlio ci ha così profondamente entusiasmato. È per appartenenza. Per sangue e per giustizia. Non ce ne rendiamo conto prima, quando di figli non ne abbiamo, non lo capiamo neppure dopo, quando diventano un incerto progetto, ma appena ci escono dalla pancia, e con un taglio diventando altro da noi, ecco lì, comprendiamo il primo abbandono. Che sta proprio nella formale consegna dell'appartenenza al padre. Sono noi, ma andranno per il mondo con un altro cognome. Sono noi, ma non avranno alcuna «etichetta» che li riconduca a noi, che li faccia «rispedire» all'indirizzo giusto. Si è esauste ed euforiche, intente ad osservare quei piedi, quelle mani, le pieghe di quella pelle nuova e a pensare se si sarà in grado di amarlo tutto quel bambino, fino alle gambe che magari diventeranno lunghe, alle braccia, ai bisogni e al carattere. Se si sarà in grado di contenere tutto ciò che sarà dopo essere state il contenitore nel quale si sono creati: cellula dopo cellula, organo dopo organo, senso dopo senso. Piombano addosso la fretta e la paralisi. Contemporaneamente. Vorresti che fossero già adulti, sani, fatti bene e risolti e vorresti che non te li avessero mai scardinati dalle viscere. Contemporaneamente. E intanto, no anzi, proprio in quel momento, qualcuno si avvicina a quel letto che è diventato un'arca e chiede «le generalità»: è a quel punto che le cose vanno in automatico, sono andate in automatico per le coppie tradizionali e qualche volta non solo per quelle, per un'infinità di tempo. È a quel punto che si acconsente, si ubbidisce alla consuetudine ma è proprio lì che parte una fitta al fianco.
Non è più fastidio e non è ancora dolore. Ma si pianta di lato, mette scomodi, fa sentire il disagio. È qualcosa di ambiguo e impercettibile, perciò lo si soffoca. E ci sono tante cose che contribuiscono alla «resa»: la tradizione, lo sfinimento del parto, la voglia di non cominciare una nuova vita in contrasto. E allora si acconsente, banalmente, ingenuamente, remissivamente. Ma quello è il primo esproprio incomprensibile. Il primo esercizio forzato al «lasciare andare» il proprio figlio senza averne alcuna voglia, senza che ce ne sia alcuna necessità.
Sia benedetta la Consulta. Che sancisce che è nostro ciò che non potrebbe essere più nostro. Che riconosce ciò che è irrimediabilmente impastato con noi per sempre. Che dà un nome a questo essere due in una persona sola: il cognome del figlio.
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