«Quando, venti anni fa, sono venuto a sapere, all'improvviso, della strage di Nassiriya, insieme al dolore, all'angoscia, al pianto, ho capito subito che eravamo ad una svolta cruciale e che la partecipazione a missioni internazionali includeva anche la possibilità di partecipare o subire eventi drammatici. Ma quel giorno capii anche un'altra cosa. Chi presta servizio nelle Forze Armate rischia ogni giorno la sua vita per assolvere il proprio dovere. Ecco perché il suo lavoro non può essere considerato uno dei tanti, normali, lavori e comparti del lavoro pubblico. Proprio il ricordo di quella tragedia mi ha spinto, da Sottosegretario della Difesa, nel 2008, ad iniziare una serrata e per nulla facile battaglia per garantire la specificità delle Forze Armate e di Polizia all'interno dell'ordinamento statale. Riuscii allora a far riconoscere il principio ma ci sono ancora molto passaggi da fare per garantire il giusto riconoscimento a tutto il comparto che garantisce la nostra sicurezza. Per fare un esempio, i nostri militari che rischiano la vita hanno diritto a un trattamento pensionistico degno del lavoro che fanno è diverso dall'attuale».
Il ministro della Difesa Guido Crosetto ricorda così, in questa intervista a Il Giornale, sentimenti, sensazioni e memorie di quel maledetto 12 novembre di 20 anni fa quando l'attentato alla Base Maestrale costò la vita a 19 italiani (12 carabinieri, 5 militari e 2 civili) e a 9 iracheni. Ma il ministro ricorda anche la compostezza con cui l'Italia reagì a un massacro progettato per colpire l'anello debole della coalizione occidentale e bloccare la stabilizzazione dell'Irak.
«Usando un termine allora non ancora in voga, potremmo dire che quell'attentato fu il il primo esempio di guerra ibrida. Per i terroristi eravamo l'anello debole della Coalizione, la nazione occidentale meno in grado di reagire ordinatamente a una strage. Colpendoci, volevano fare piazza pulita dell'idea stessa che un gruppo di nazioni potesse mandare i propri soldati a consolidare la pace. Ma questo non avvenne perchè il nostro Paese reagì con un grande scatto di orgoglio solidarietà. L'Italia pianse i propri soldati, ma non rinunciò a celebrarne l'onore. Nessuno si azzardò a dire che la loro morte era stata inutile o vana. L'opinione pubblica si strinse intorno a loro e riconobbe che il loro sacrificio era stato cruciale per il Paese e per la comunità nazionale e internazionale. Nella tragedia assistemmo a un passaggio culturale essenziale per la crescita della Nazione».
Nassiriya è un evento simbolo di tutti i nostri caduti in Irak e poi in Afghanistan. Eppure, a vent'anni di distanza qualcuno considera quelle missioni inutili. È così?
«Assolutamente no! L'esito della missione in Afghanistan dimostra soltanto che qualcuno non ne aveva capito senso, significato e ragioni. Missioni come quelle non possono partire e consolidarsi in cinque o dieci anni. Non sono prodotti a scadenza come tanti yogurt da tenere nel frigorifero. Dietro le quinte della missione Nato in Afghanistan erano nate cinquemila radio e centinaia di giornali liberi e indipendenti mentre le donne iniziavano ad andare a scuola, persino senza il velo lungo, e nel paese si respirava una forte voglia di libertà. Certo, c'erano caos, disordine e corruzione, ma anche tante innovazioni positive. E le nostre Forze Armate avevano contribuito fattivamente alla liberazione di quelle energie positive. Purtroppo, nel giro di un mese dal ritorno del durissimo regime dei talebani, quanto c'era di positivo è stato da loro del tutto azzerato».
Qual è stato l'errore?
«Puntare su una classe dirigente spesso corrotta che fosse innanzitutto fedele all'Occidente pur non essendo rappresentativa. È un errore che nessuno deve più commettere. Le classi dirigenti vanno fatte crescere dal basso, garantendo nel contempo la sicurezza del Paese».
È vero che l'Italia non sa trasformare in capitale politico ed economico il prestigio garantitole dall'impegno dei nostri soldati?
«È assolutamente vero, ma su questo la Difesa non può fare più di quanto già fa. Oggi cerchiamo di aiutare il nostro paese nell'accreditamento all'estero, garantendo gli aiuti umanitari a Gaza. Facendolo, diventiamo un ponte tra Paesi occidentali e Paesi arabi. Ma la Difesa da sola non basta se non ha dietro un sistema Paese. Ai tempi dell'Afghanistan è mancata, ad esempio, una grande azienda che - quando Kabul ce l'ha chiesto - andasse ad estrarre litio nelle sue miniere. In Italia non si è fatto avanti nessuno e così al nostro posto è arrivata la Cina, grande Paese, ma che in Afghanistan non ha mai investito nulla. Questo insegna che fare sistema Paese significa coordinarsi e creare sinergie non solo con la parte pubblica, ma anche con le aziende. Eppure, siamo ancora molto lontani dal farlo. E questo mi fa molto arrabbiare».
Oggi dove bisogna impegnarsi?
«Oggi c'è un braccio di ferro con la Russia, quindi bisognerebbe investire in quei Paesi che, se non si avvicinano a noi, torneranno inevitabilmente nell'orbita post-sovietica. Penso a Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan, lo stesso Azerbaijan e ad altre cruciali repubbliche ex-sovietiche. E, visto che ho appena incontrato il ministro alla Difesa del Kosovo, penso alla Serbia. Se non vogliamo che Belgrado si sposti ulteriormente verso Mosca, è essenziale mantenere un dialogo con i serbi e, allo stesso tempo, spiegare a Pristina che, se non collabora con noi e con loro, sarà la prima a risentirne le conseguenze.
Vent'anni dopo Nassiriya, la nostra missione in Irak continua. Qual è il nostro ruolo in quel Paese e in un Medio Oriente in fiamme?
«In Irak stiamo formando le forze armate locali. Quindi costruiamo rapporti che dureranno decenni perchè modelliamo la classe dirigente delle forze armate e delle forze dell'ordine irachene di domani. Ma consolidare la nostra presenza in quel paese significa anche saper dialogare con gli amici come con i nemici. Attraverso le forze sciite irachene passa anche la possibilità di un ponte con l'Iran da usare quando e se può servire. E come dimostra la trattativa sugli ostaggi di Israele è sempre essenziale avere canali aperti con tutti».
Abbiamo un ruolo nel dopo-guerra a Gaza? È realistico portarvi un ospedale da campo e ipotizzare un impegno simile a quello esercitato con Unifil in Libano?
«Siamo partiti con questa iniziativa perché pensiamo ad un primo passo non solo italiano, ma che diventi multinazionale. Dopo aver mandato la nave ospedale e aver chiesto a SMD (Stato Maggiore Difesa) di organizzare un ospedale da campo su terra ho interpellato i colleghi di Nato, Unione Europea e Paesi Arabi. L'Italia, dal mio punto di vista, può guidare questa iniziativa perché è un Paese rispettato, stimato e in grado di mantenere un dialogo con tutti.
Siamo rispettati sia da Israele e sia dal mondo arabo. Quindi non dobbiamo temere di muoverci con autorevolezza a livello internazionale. L'ospedale a Gaza può essere un primo tassello in grado di garantire un ruolo al nostro paese nel futuro del Medio Oriente».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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