Superare gli schemi. «Bisogna percorrere strade nuove», spiega lei. Vale per l'Africa e per il dramma dei migranti, di nuovo sulle prime pagine dei giornali con le partenze di centinaia di barchini e barconi; vale per la politica italiana imprigionata in logiche che faticano a tenere il passo dei tempi.
«Le do un dato - esordisce Letizia Moratti, seduta nel salotto di casa, nel cuore di Milano, in mezzo ai suoi gatti - ogni anno 29 milioni di giovani africani entrano nel mondo del lavoro. Sono numeri che dovrebbero farci riflettere, perché siamo davanti a problemi colossali e senza uno sforzo di creatività e di realismo sarà difficile raggiungere risultati concreti».
Che cosa serve in concreto?
«I dieci punti di Von der Leyen possono risultare solo principi e astratti e deboli se non sono ancorati alla realtà, agli investimenti e allo sviluppo dell'economia di quei paesi fragili ma colmi di speranza, e quegli investimenti devono poggiare su due pilastri».
Quali?
«Anzitutto la formazione per creare imprenditorialità che possa crescere e fecondare quelle terre. Dobbiamo uscire dalla logica dell'assistenzialismo burocratico fine a se stesso. È il disegno che nel mio piccolo perseguo con la mia fondazione, E4Impact Foundation».
E l'altro punto?
«Lavoriamo sui flussi regolari, utilizzando al meglio la leva della formazione. All'Italia e agli altri paesi europei servono migliaia e migliaia di operai, agricoltori, badanti e via elencando. C'è un bisogno fortissimo di manodopera che qui non si trova e allora si devono formare laggiù quei tecnici, quei contadini, quei lavoratori. Ma sono necessari accordi quadro che permettano alle imprese tricolori di muoversi con sicurezza in quella ragnatela di rapporti».
C'è spazio in un periodo di emergenza per ragionare sul medio periodo?
«Questo è un problema strutturale, non è più un'emergenza. Pensi che la Germania ha appena raggiunto un'intesa con il Kenya: da Nairobi partiranno duecentomila persone, ma non saranno disperati stipati nelle imbarcazioni di fortuna che prendono la via di Lampedusa, ma saranno figure con capacità professionali, una prima conoscenza della lingua tedesca, delle leggi e dei valori del Paese che li ospiterà».
Si parla di Tunisi, si finisce a Roma e Milano. L'Africa e le politiche per quel continente che scoppia. I temi si intrecciano e impongono scelte.
I tempi dell'addio a Forza Italia e della corsa solitaria per il Terzo Polo paiono irrimediabilmente lontani.
Letizia Moratti ha assistito con sgomento alle lotte fratricide fra Renzi e Calenda. Ora il suo viaggio dentro la terra di nessuno sembra aver imboccato una direzione precisa: «Lavoro per costruire un soggetto al centro, non uno dei tanti centrini, ma un centro che rafforzi la cultura moderata e riformista che interpreto».
E dove potrebbe collocarsi questo raggruppamento?
«Mi pare che i fatti parlino chiaro. C'è una vasta area orfana di rappresentanza, un'area che guarda con interesse al centrodestra. Si tratta di rafforzarne quella componente perché altrimenti la coalizione oggi al governo potrebbe slittare fatalmente ancora più a destra, accentuando uno spostamento all'estrema già in corso con conseguente disagio di una parte non trascurabile dell'elettorato».
Con chi tenterà quest'avventura? Renzi ha già detto che il suo nuovo progetto si chiamerà il Centro, un luogo geografico un po' troppo affollato ma poco frequentato dagli elettori.
«Non è un problema di sigle, ma di contenuti. Comunque, per quanto mi riguarda ho preso una strada, mentre dall'altra parte dell'emiciclo vedo una deriva sempre più radicale. Mi interessa che la politica possa portare dei contributi alla soluzione dei problemi, non piantare bandiere su questo o quel problema, in una insensata guerra ideologica».
Torniamo al tema incandescente dei richiedenti asilo e dei clandestini.
«Sull'Africa, quasi tutti i governi hanno parlato per slogan, ma la realtà è molto più complessa. Il piano von der Leyen, per rimanere all'attualità, si sofferma molto sul capitolo sulla sicurezza, ma se non si mettono risorse su quei paesi non si uscirà mai dal cratere di una crisi economica, sociale, climatica, ambientale. Ecco perché vorrei veder rafforzare quelle componenti di aiuto che non siano solamente una forma più o meno raffinata di elemosina».
In sintesi?
«E4Impact, come tante altre fondazioni, promuove progetti mirati. Noi in dieci anni abbiamo formato 40mila imprenditori in 23 paesi africani, ma non ci fermiamo qua».
Poi che succede?
«Diamo loro una sede, le connessioni, i link digitali, l'energia, insomma incubiamo quelle imprese e cerchiamo di dare loro una spinta finché non viaggeranno sulle loro gambe.
Sono nate aziende come la Strauss Energy in Kenya che fornisce energia rinnovabile a basso costo grazie all'uso di tegole con pannello solare integrato o la Fanset International, nello Zimbabwe, che ottimizza con sistemi informatici i trasporti via camion e offre attrezzature agricole on demand. Ma anche per le aziende tricolori si aprono prospettive suggestive. Dobbiamo spingere questa Africa e questi africani che ci chiedono solo una cosa: poter lavorare senza dover emigrare in Occidente».
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