Da Roma al Vietnam così diventò immortale la leggenda della boxe

Conquistò il mondo da re dei Giochi Lo riconquistò gettando l'oro nel fiume Cambiò nome per dare un pugno all'America. Fu campione dei massimi demolendo Liston, Moore, Frazier e Foreman. Lo piegò solo il Parkinson

Da Roma al Vietnam così diventò immortale la leggenda della boxe

Tremava la fiamma di Olimpia nel tripode di Atlanta. Tremava il braccio e tremava il corpo del tedoforo chiamato ad accendere il fuoco dei Giochi. Muhammad Ali teneva alta la fiaccola e i suoi occhi cercavano la stessa luce. Vent'anni dopo, la notte dell'Arizona se l'è portato via, in silenzio. Un respiro, la fine di una vita. Non dell'uomo leggendario, del titano della boxe, dello sport. Avrebbe voluto combattere dentro il Colosseo, i suoi nomi di battesimo lo riportavano alla Roma antica, Cassius Marcellus, onomastica da anfiteatro: «Vorrei che il governo italiano ricostruisse il Colosseo, vorrei battermi lì con Frazier, vorrei entrare su un cocchio trainato da sei cavalli bianchi e le trombe che suonano per me a tutto fiato e la mia folla che mi dona la corona di Giulio Cesare e mi incita, urla uccidilo, uccidilo». Il governo italiano non ha ricostruito il Colosseo, i cavalli bianchi e il cocchio hanno portato altrove l'anima e il sogno di Muhammad Ali. Resiste un ricordo lontano nel tempo e vicinissimo nell'emozione, lo porto appresso dall'Olimpiade di Roma, il luogo dell'adolescenza sua, a diciotto anni lo cinsero al collo con la medaglia d'oro che poi lui avrebbe lanciato nell'Ohio, uno dei fiumi dello stato federale, dopo che un ristoratore si era rifiutato di servirlo. I Giochi di Roma furono un'altra scoperta dell'America per noi che avevamo in Nino Benvenuti l'eroe del ring.

Marcellus si fece Muhammad Ali per volere di Khalilah Camacho, la sua seconda moglie, musulmana e madre di quattro figli. Non è stato soltanto un campione di pugilato. E' stato IL Pugilato. E' stato lo sport. E' stato cronaca e storia, poi leggenda, artefice di un modo nuovo di intendere l'arte, con lui davvero nobile, l'Ali shuffle (lo striscio) non era soltanto un movimento dei piedi e delle gambe, era la danza elegante, provocante e provocatoria. I suoi pugni sembravano carezze, erano sventole micidiali, la velocità di azione, la rapidità di intuizione, l'efficacia dei colpi, furono decisivi per demolire i monumenti del ring, Moore, Frazier, Foreman, Liston. La notte di Kinshasa diventò letteratura e film, l'Africa nera rese omaggio alla sua bandiera, fino a quel giorno, a quel mese, a quell'anno, trenta di ottobre del millenovecentosettantaquattro, Kinshasa era un punto sconosciuto di una terra sconosciuta, Zaire. L'aria umida e la canicola africana erano trappole perfide, Muhammad lo capì prima di George. Il round di avvio fu aggressivo poi si mise alle corde e attese che il rivale esplodesse la sua rabbia e la sua forza. La farfalla sembrava essersi addormentata nella foresta, l'ape prese a pungere, poi, quando Foreman ormai ubriaco di pugni portati e anche presi, venne folgorato da una serie improvvisa, destro, sinistro; il campione prese a barcollare cercando un appiglio, nuotando con le braccia nello scirocco malefico, cadendo come corpo morto cade. Era la fine di una sfida e l'inizio di un racconto. Muhammad Ali ha narrato la sua e nostra esistenza, da fuoriclasse, muovendo la lingua e scaldando il cervello, riuscendo a far amare la boxe anche a chi questo sport snobba o disprezza per il sangue, la lotta, la morte. L'arte di Alì mai è stata violenta, semmai astuta, come un laccio per acchiappare lo stupido di turno, l'avversario stuzzicato e colpito ancor prima di combattere, il ring era l'ultima stazione dopo l'attacco verbale, la provocazione, la derisione e l'annuncio: «tenete aperte le porte, la gente andrà a casa dopo il quarto round», lo disse alla vigilia del match con Archie Moore. Era la sua magia puntuale, il rito palabratico e guascone per avvolgere il ring di un'attesa prevista ma non prevedibile, sapeva che fine avrebbe fatto fare a chi gli si fosse parato davanti. Così accadeva. Sessantuno incontri, cinquantasei vittorie, trentasette delle quali per kappao, cinque sconfitte.

Ritrovai l'artista quando le prime saette della malattia avevano ferito la sua statua, della libertà vera. Era un hotel di Milano, il Manin. Gianni Minà, collega eccelso e amico smarrito, era il suo secondo ma all'angolo dell'esistenza quotidiana. Gianni mi invitò per trascorrere insieme la giornata. Alì procedeva, davanti a me, lungo il corridoio dell'albergo tenendo le braccia larghe e appena muovendosi sui piedi: «Guarda - mi disse - posso camminare anche sull'acqua, sollevandomi». Calzava un paio di scarpe che una ditta specializzata aveva confezionato specificatamente per lui. Gli permettevano, con la pressione dei calcagni, di sollevarsi, dando così l'impressione che si alzasse da terra.

Sapeva indossare lo smoking con la stessa disinvoltura ed eleganza di quando era avvolto dall'accappatoio di seta e spugna. Ha avuto mogli, quattro; amanti, mille; figli, sette; denari, gloria, a lui sono stati dedicati monumenti, per lui sono stati scritti libri, sceneggiature, musiche; il film che racconta la storia della notte di Kinshasa Quando eravamo re, conquistò l'Oscar nel '97.

Il popolo di Hollywood si alzò in piedi per i due interpreti non attori, George Foreman, lo sconfitto finito al tappeto, prese per mano il vincitore e lo accompagnò sul palco. Ali conservò lo stesso sguardo, fisso, come ad Atlanta, una leggera smorfia, quasi un sorriso, segnò le sue labbra. Altri piangevano. Oggi piangiamo.

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