Il destino di Cecilia Sala resta legato a una triangolazione diplomatica che più complessa non poteva essere. Non solo perché vede su fronti opposti Stati Uniti e Iran, ma anche perché l'amministrazione americana è sostanzialmente congelata fino al 20 gennaio, giorno in cui a Capitol Hill si terrà l'inauguration day e Donald Trump entrerà formalmente in carica. Certo, questo non significa che non sia in corso e già da giorni una fitta interlocuzione tra il governo italiano e Washington, con contatti e scambi di informazioni a più livelli. Anche se resta improbabile che si arrivi a una soluzione in tempi brevi, nonostante l'imminente visita in Italia di Joe Biden, che è atteso a Roma tra il 9 e il 12 gennaio (incontrerà il Papa, Sergio Mattarella e Giorgia Meloni).
Già, perché per liberare la giornalista italiana - prigioniera dal 19 dicembre senza neanche un'accusa da cui potersi provare a difendere - l'Iran chiede che sia rilasciato Mohammad Abedini Najafabadi, l'ingegnere svizzero-iraniano arrestato a Malpensa lo scorso 16 dicembre. Esattamente tre giorni prima di Sala, a conferma - se mai ce ne fosse stato bisogno - che la detenzione della cronista del Foglio e Chora Media non è altro che una ritorsione politico-diplomatica per poter ricattare il governo italiano. Il problema, come è noto, è che l'arresto di Abedini è avvenuto su richiesta degli Stati Uniti, che lo accusa di cospirazione e ne chiede l'estradizione.
Insomma, al netto della partita giudiziaria con la Corte d'appello di Milano che il 15 gennaio dovrà decidere se concedergli i domiciliari, per un eventuale «scambio» è necessario uno stretto coordinamento tra Roma e Washington. Con Meloni che può far sì valere i suoi ottimi rapporti sia con Biden che con Trump, ma con il nuovo inquilino della Casa Bianca che immagina una campagna di «massima pressione» sull'Iran (come peraltro ha già fatto durante il suo precedente mandato).
La questione, dunque, non è di facile soluzione. E, peraltro, potrebbe volerci tempo. Che è quello che Sala non ha, viste le preoccupanti condizioni in cui è detenuta nella prigione iraniana di Evin. È in questo scenario, peraltro, che Teheran non perde occasione di alzare la tensione. Ieri mattina, infatti, l'ambasciatrice italiana Paola Amadei è stata convocata al ministero degli Esteri iraniano, dove ha incontrato Majid Nili Ahmedabadi, direttore generale per l'Europa occidentale. Che le ha recapitato un messaggio piuttosto tranchant e che il governo di Teheran ha voluto rendere pubblico attraverso l'Irna, l'agenzia di stampa della repubblica islamica. Non solo, infatti, l'Iran ha protestato per l'arresto di Abedini definendolo «illegale e in linea con gli obiettivi politici ostili degli Usa», ma ha anche invitato il governo italiano a «rigettare la politica sugli ostaggi degli Stati Uniti» e «creare le condizioni per il rilascio» di Abedini, altrimenti si rischia di «danneggiare i legami tra Iran e Italia».
Una situazione incredibilmente complessa, con il governo italiano che si muove sia sul fronte della diplomazia che su quello dell'intelligence. Con l'obiettivo non solo di arrivare alla sua liberazione, ma anche di riuscire nel frattempo a ottenere che la giornalista italiana sia detenuta in condizioni decenti e accettabili (esattamente come accade per Abedini nel carcere di Opera).
Nel frattempo, ieri la famiglia di Sala ha chiesto il silenzio stampa, con il timore che «il grande dibattito mediatico su ciò che si può o si dovrebbe fare rischi di allungare i tempi e di rendere più complicata e lontana una soluzione».
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