Non è un bluff quello con cui Matteo Salvini cerca di ritornare in partita, ma questo non significa che al momento di calare le carte, cuori e bastoni saranno sufficienti per riportare la Lega al governo. Il bastone è «la via maestra del voto», l'unico modo in cui il segretario della Lega potrebbe averla vinta su alleati e avversari, ma per ricorrere a quella che lui considera l'arma letale, il popolo, ora più che mai servirebbe il via libera del Colle. Il cuore ha cercato di offrirlo al suo amico diventato avversario e adesso per lui di nuovo amico, Luigi Di Maio, ritenuto l'ancora di salvezza tra i Cinquestelle che gli si rivoltano contro. «Ritengo che Di Maio abbia lavorato bene» dice il segretario della Lega all'uscita dalle consultazioni con il capo dello Stato.
Sa che, al di là delle apparenze degli ultimi giorni, il capo politico del M5S rischia di essere messo all'angolo ed esautorato a breve, come simbolo negativo di questi quattordici mesi di alleanza con la Lega da dimenticare. Se i vertici grillini hanno scelto Conte come immagine positiva del governo gialloverde, Salvini guarda al vicepremier con cui è stato immortalato persino nei murales: Luigi e Matteo come fidanzatini innamorati. Adesso, mentre da sinistra arrivano paletti e condizioni, Salvini offre il taglio dei parlamentari e pronuncia parole che suonano come l'alloro della premiership per il suo compagno di governo. Di Maio tiene aperte tutte le porte, non chiude l'ultimo spiraglio all'ex alleato di governo, nel caso in cui si formi un esecutivo sui dieci punti che sembrano un nuovo contratto. La sinistra accusa Di Maio di tenere aperti due forni: con la sinistra e con la Lega. È la crisi d'agosto, la più pazza del mondo, e nessuno, meno che mai Di Maio può permettersi scelte definitive prima di sapere come andranno a finire le prossime consultazioni, al via da mertedì prossimo.
Quarantacinque lunghi minuti di colloquio con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per Salvini e i capigruppo leghisti al Senato e alla Camera, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari, in cui il vicepremier leghista uscente non si è limitato a ripetere la giaculatoria «al voto subito» per ottenere «pieni poteri», quella che lo ha portato ad aprire la crisi dell'8 agosto che ha irritato non poco anche il Colle.
A Mattarella Salvini ha ripetuto la propria convinzione e cioè che «un accordo tra Pd e M5S sarebbe vecchia politica, un'intesa contro, irrispettosa del sentimento popolare». Salvini si è convinto, o almeno così va ripetendo, che da mesi i pontieri dei due partiti, Pd e M5S, sono al lavoro per escluderlo, come proverebbero tutti gli abboccamenti europei, a partire da quel colloquio tra Conte e Angela Merkel che Salvini continua a rilanciare sui social come una prova delle trame contro la Lega. Era sicuro che nessuno dei commissari europei da lui proposti sarebbero stati veramente caldeggiati dal premier e così accettati dal presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Se ha fermato le macchine, insiste, è perché continuava ricevere solo «no», soprattutto sui temi economici.
Eppure ai Cinquestelle, e non solo, ha teso la mano ancora una volta, durante i colloqui col capo dello Stato e poi dopo, durante il colloquio con i giornalisti diventata anche l'ennesima diretta Facebook.
«Se qualcuno mi dice ragioniamo perché i no diventino sì, per lavorare non contro ma per, io sono un uomo concreto, non porto rancore». Se nel M5S si parla di una manovra espansiva, senza aumento dell'Iva e con altri 20 miliardi, di flat tax al 15%, «se i no sono diventati sì, noi ci siamo». Si tratta di vedere se ci sono gli altri.
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