Solo un anno fa lo scandalo peggiore della storia del Parlamento europeo aveva terremotato le istituzioni di Bruxelles. La macchia delle presunte tangenti agli eurodeputati per favorire gli interessi di Qatar e Marocco aveva travolto l'immagine dei socialisti e sembrava aver demolito la credibilità della stessa Ue. Eppure dell'impatto del Qatargate sul gruppo dei democratici resta ben poco in vista delle elezioni di giugno. È bastato l'intervento della presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, con una serie di misure approvate in fretta e furia, per dire di aver «ripulito» l'istituzione, di aver rafforzato gli anticorpi e di aver isolato i pochi casi sospetti: dal divieto delle cosiddette «porte girevoli» degli ex europarlamentari che svolgono attività di lobbying, all'obbligo per i deputati di comunicare ogni loro incontro dentro le sedi di Bruxelles o Strasburgo.
L'inchiesta è ancora in corso ma procede ormai a fari spenti negli uffici della Procura di Bruxelles, anche per non turbare la prova elettorale del gruppo S&D. La grancassa mediatica ha smesso di risuonare anche dopo che sono emersi abusi e conflitti di interesse che hanno minato la credibilità degli stessi inquirenti belgi, sollevando pesanti interrogativi sui metodi della magistratura e sulle garanzie del sistema giudiziario di un Paese che ospita il cuore delle istituzioni dell'Ue. Un cortocircuito su tutti: il magistrato istruttore dell'inchiesta, Michel Claise, si è ritirato dall'indagine dopo che era emersa la sua incompatibilità, visti gli affari del figlio con quello della europarlamentare socialista, Maria Arena, sfiorata dall'inchiesta. Il magistrato ora in pensione correrà alle elezioni nazionali in Belgio con la stessa sinistra.
I socialisti e democratici dell'Eurocamera si sono affrettati a prendere le distanze dall'indagine che ha sporcato l'immagine delle loro attività parlamentari. Un rapido processo di rimozione collettiva a dispetto dello sbandierato garantismo e delle diverse posizioni dei deputati coinvolti. La greca Eva Kaili, ex vice presidente del Parlamento e figura di peso del gruppo, è stata per 4 mesi in carcere preventivo. Arrestata dopo che aveva chiesto al padre di recuperare dal suo appartamento di Bruxelles - dove viveva col compagno indagato Francesco Giorgi - una valigia con 600mila euro che lei sostiene fosse di Panzeri, per restituirgliela. Kaili ha gridato la sua innocenza dal primo giorno denunciando la violazione dei diritti umani del sistema belga. In cella non ha potuto vedere la figlia di due anni, utilizzata come strumento di pressione per «estorcere confessioni». Forti dubbi anche sui verbali di Antonio Panzeri, l'ex europarlamentare di Articolo 1, considerato il dominus della presunta rete corruttiva, che ha firmato un accordo di pentimento in cambio della liberazione della moglie e della figlia. Nonostante gli stessi legali di Panzeri abbiano contestato i metodi usati dagli inquirenti in quell'accordo, le sue dichiarazioni - che tirano in ballo Kaili e altri - sono ancora la base dell'impianto accusatorio. Non una parola dalla sinistra europea per chiedere chiarezza. Era finito prima in carcere e poi ai domiciliari anche l'europarlamentare dem Andrea Cozzolino: «Il Pd mi ha trattato in un modo disumano», si era sfogato col Corriere.
A oggi le contestazioni, i presunti abusi, il mistero di tutti quei contanti a casa di Panzeri, le ombre sulla deputata Arena, ancora al suo posto,
finiscono sotto il tappeto delle coscienze dei socialisti in Ue. La rimozione della questione morale da un lato e della presunzione di innocenza dall'altro. Due pesi e due misure. L'importante è arrivare alle urne senza macchia.
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