È ragionevole che, almeno nel giorno di Pasqua, molti lavoratori desiderino restare a casa. È pure sensato che lo scorrere del tempo sia segnato da alcuni momenti «forti»: da quelle pause (da Natale a Capodanno, a Pasqua) che aiutano a relativizzare il peso crescente che è attribuito nella società al lavoro, al successo, agli impegni lavorativi.
Questo spiega perché molti oggi protestino contro la richiesta di andare al lavoro pure nel giorno della resurrezione di Gesù Cristo. Vale la pena di ricordare alcune semplici cose. I rapporti tra un'impresa e i suoi dipendenti dovrebbero essere definiti da una contrattazione volontaria. Libera l'azienda di offrire un contratto che impegna a lavorare anche nelle festività; libero il lavoratore di rifiutare. Oltre a ciò, bisogna tenere presente come la nostra società sia sempre più articolata: sul piano culturale, etnico, religioso. Ci sono certamente persone che considerano ancora un giorno speciale la Pasqua cristiana, così come altri reputano fondamentale il 25 aprile della Liberazione o il primo maggio della Festa dei lavoratori. Una liberalizzazione dei contratti e dei rapporti di lavoro potrebbe condurre le imprese a far impiegare di volta in volta chi non è così sensibile a questa o quella festività.
Basterebbe liberalizzare il mercato del lavoro e avremmo molte meno tensioni. Vale infine la pena di ricordare in che situazione si trova l'economia italiana.
Siamo in un momento assai complicato: sull'orlo di un possibile crollo che metterà in discussione il presente e, quel che è perfino peggio, il destino dei nostri figli. Chiudere le attività commerciali in questo o quel giorno, obbligando a non lavorare anche chi vorrebbe farlo, peggiorerebbe una situazione già ora difficile. Sarebbe davvero una scelta sciagurata.
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