La scienza delle bestemmie

Lo studio di un gruppo di antropologi, linguisti e giuristi: non sempre l'imprecazione ha intenti blasfemi. Dalla Toscana al Veneto, se l'ingiuria non vuol essere contro Dio

La scienza delle bestemmie
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Non sempre una bestemmia viene pronunciata con l'intento di oltraggiare la divinità: talvolta rappresenterebbe un intercalare volgare ma non blasfemo, tradizionalmente parte del modo di esprimersi degli abitanti di alcune aree d'Italia. Questa, in sostanza, la conclusione alla quale sono giunti alcuni antropologi, linguisti e giuristi, che hanno studiato il rapporto tra bestemmie e religione e pubblicato le loro considerazioni in un volume.

Per questa sorta di surreale «antologia della bestemmia», gli studiosi Florio Carnesecchi, Pietro Clemente, Paolo De Simonis, Luciano Giannelli, Gianfranco Macciotta e Giovanni Pieri sono partiti da un episodio avvenuto nel corso dell'edizione 2020 del Grande Fratello Vip, che ha fornito loro lo spunto per una ricerca storica spintasi sino all'800. E hanno presentato un paio di giorni fa a Prato il prodotto dei loro studi: Non c'è bestemmia - scritti sul parlato riprovevole, il titolo del libro. Una presentazione avvenuta curiosamente nella stessa città in cui nel 1977 Giuseppe Bertolucci girò il film Berlinguer ti voglio bene, trasmesso per la prima volta in televisione solo poche settimane fa a causa dei continui turpiloqui e delle numerosissime battute volgari che caratterizzano le scene. Un'iniziativa nata guardando il GF Vip: ad ispirare gli studiosi sarebbe stata la squalifica dell'ex-calciatore Stefano Bettarini, accusato di aver bestemmiato all'interno della Casa.

«Eravamo in pieno Covid e Bettarini fu espulso dal Grande Fratello - ha raccontato lo scrittore ed antropologo Pieri al quotidiano La Nazione - così, quasi per caso, ho iniziato a riflettere sull'uso delle parolacce. Bettarini disse madosca, che non è peraltro un riferimento religioso. Anzi, è proprio un modo per evitare di fare altri nomi...».

Ma a detta degli studiosi anche una bestemmia a tutti gli effetti può non essere ritenuta blasfema, a patto che chi la pronuncia non lo faccia per insultare Dio. Un discorso valido soprattutto in quelle zone della Penisola i cui residenti bestemmiano frequentemente: si tratterebbe di un fenomeno non per forza imputabile a sostrati anti-clericali. Qualora qualcuno facesse notare come bestemmiare sia un'abitudine più frequente nelle regioni con un passato «rosso» (Toscana in primis, ma anche Umbria ed Emilia Romagna) l'obiezione degli autori sarebbe rappresentata dal «caso Veneto».

In Veneto la religione resta una componente fondamentale del tessuto sociale, ma è comunque una delle realtà italiane in cui il ricorso alle imprecazioni è più alto. E nel rafforzare la loro tesi, gli studiosi hanno citato un caso giudiziario risalente al 1880: la Cassazione di Firenze condannò a dieci giorni di carcere tale Dante Bini, ma i giudici gli riconobbero alcune attenuanti in quanto «si trovava in uno stato di tale dolore accecante da non rendersi conto pienamente di quello che stava facendo».

«Ci sono anche luoghi d'Italia dove gli improperi sono di uso comune - ha concluso l'antropologo De Simonis - in generale la bestemmia, con intenzioni effettivamente blasfeme, appare quasi del tutto estinta.

Ne persiste l'eredità, riconoscibile in abitudini linguistiche, che in passato avevano caratterizzato anche alcune regioni, certo non acattoliche. È per lo più in forma di eufemismo che oggi, di tali abitudini, resta molto più la forza espressiva che non il contenuto anti-religioso».

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